Dai criminali nazisti a Cesare Battisti: le grandi fughe

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Verso la fine della seconda guerra mondiale, i più alti gerarchi e i grandi imprenditori nazisti, rendendosi conto dell’imminente sconfitta, organizzarono un piano strategico per fuggire dalla giustizia e mantenere gli ingenti capitali accumulati negli anni.

Nasce l’operazione O.D.E.S.S.A., oggetto di forte dibattito tra gli storici.

Alcuni sono convinti della sua esistenza come rete organizzativa ben strutturata: tra questi Daniel Johan Goldhagen, storico di fama mondiale, ma anche l’argentino Uki Goñi che, nel libro The Real Odessa: how Peron brought the Nazi War criminals to Argentina (2002), avanza una tesi molto forte accusando il Vaticano di aver favorito e progettato la fuga dei gerarchi nazisti. Altri, invece, credono che l’operazione O.D.E.S.S.A. sia semplicemente un mito e che le vie di fuga siano state casuali e molteplici.

Al di là del dibattito storico, certo è che i più noti criminali nazisti riuscirono a fuggire.

Per citarne alcuni: Adolf Eichmann, organizzatore della soluzione finale degli ebrei, catturato dal Mossad nel 1960 e processato a Gerusalemme nel 1961; Josef Mengele, l’Angelo della Morte, medico autore di atroci esperimenti sui bambini, in particolar modo sui gemelli; Heinrich Müller, capo della Gestapo; Klaus Barbie, comandante della Gestapo a Lione, conosciuto anche come Macellaio di Lione, collaboratore attivo nella Scuola delle Americhe, caserma speciale con sede a Panamà, dedita tra il 1946 e il 1984 all’addestramento dei torturatori militari latinoamericani; Franz Stangl, comandante del campo di concentramento di Treblinka; Walter Rauff, inventore dei camion-camera a gas.

Ma, com’era organizzata la fuga?

Grazie ad un serrato reticolo di contatti e collaborazioni, che vide protagonisti alti prelati della Curia romana (pare addirittura anche Papa Paolo VI) e internazionale, si delineò la Ratline, in tedesco Rattenlinien ovvero la “Via dei ratti”, un sistema con tappe ben precise che permise di eludere i processi in atto in Europa e scappare in terre lontane, in particolar modo in Sudamerica.

L’America latina era, infatti, meta privilegiata perché composta da Stati neutrali, a maggioranza cattolica e guidati in molti casi da governi filo-nazisti. Da Monaco di Baviera, i criminali giungevano a Genova, porto da cui si imbarcavano. La città ligure divenne, così, decisiva: era anche sede della DAIE, la Delegación Argentina de Inmigración in Europa che, in contatto costante con gli uffici argentini, si procurava i visti d’ingresso completi di foto e nomi fittizi. Da Genova, le pratiche passavano a Roma, dove la Croce Rossa rilasciava i passaporti definitivi. Tutto era pronto.

La fuga verso il Sudamerica non interessa, però, solo i criminali nazisti.

Passarono per Genova ‒ pronti per imbarcarsi ‒ molti ustascia, criminali che appartenendo al movimento nazionalista e fascista croato di estrema destra ‒ alleato dei nazisti e fascisti italiani ‒, avevano compiuto atrocità di massa e delitti inauditi, diffondendo terrore tra zingari, popolazione serba ortodossa ed ebrei. Eclatante la protezione organizzata per il dittatore croato Ante Pavelić che, secondo alcune ricostruzioni, si rifugiò nel convento di San Girolamo e riuscì a salpare dal porto ligure.

Scapparono, altresì, verso porti sicuri criminali italiani: personalità appartenenti al regime fascista, come Luigi Federzoni o Cesare Maria De Vecchi, ma anche criminali attivi durante gli anni di piombo. È il caso di Cesare Battisti, balzato alle cronache negli ultimi giorni. Il 12 gennaio 2019, infatti, l’ex terrorista viene arrestato a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, da una squadra dell’Interpol. Membro del gruppo Proletari Armati per il Comunismo, ha al suo attivo in Italia quattro condanne all’ergastolo per altrettanti omicidi, compiuti tra il 1978 e il 1979. La sua vicenda giudiziaria è davvero ricca e, beneficiando di alcune norme giuridiche e una fitta rete di aiuti, dopo esser stato in Francia e in Messico, è latitante in Sudamerica. Dal 2004 al 2018, infatti, si trova in Brasile, dove viene arrestato fino al 9 giugno 2011. Gode, per breve periodo, dello status di rifugiato politico e non viene estradato per volere dei presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff.

Le cose cambiano con l’elezione di Michel Temer, che si esprime favorevole all’estradizione. Battisti, allora, scappa in Bolivia ma viene intercettato.

Le grandi fughe dalla giustizia europea fanno riflettere.

Una giustizia lenta, zoppicante, capace di lasciare grandi spazi di manovra ai criminali. Eichmann, Mengele, Stangl, Pavelić, Battisti riescono ad aggirare un sistema che, nonostante si vanti di essere sicuro e corretto, presenta numerose falle. Il problema del far giustizia resta scottante. La domanda di giustizia delle vittime resta inascoltata, irrisolta. Le vittime dei campi di concentramento hanno avuto giustizia diversi anni dopo, “combattendo”, addirittura, contro una Germania che non voleva fare i conti con il passato e contro i negazionisti. Santoro, Torregiani, Sabbadin, Campagna rischiavano di essere dimenticati, di morire due volte, mentre i loro assassini, altrove, si sposavano, avevano figli, lavoravano, vivevano.

Emergono, allora, interrogativi importanti: come si può migliorare il sistema giudiziario? Come la giustizia può rapportarsi in modo più efficace alla questione della responsabilità? Come le vittime possono essere riscattate? Come scongiurare risposte di vendetta e reintegrare il criminale nella società? E poi, ha senso la giustizia tardiva?

Una delle possibili risposte potrebbe risiedere nella giustizia di riparazione, strumento giuridico nato negli anni Settanta in ambiente anglosassone.

Con l’obiettivo di colmare le lacune della retributive justice, la restorative justice guarda alla coppia concettuale crimine-criminale non più come un fatto isolato, ma come un fatto sociale che coinvolge l’intera società. Nel caso della Germania ex-nazista, e in senso lato nel caso di Paesi che hanno vissuto dei regimi dittatoriali e violenti, si tratta di suturare delle ferite individuali-collettive, svelare i vari profili della responsabilità, trovare strumenti affinché parti antagoniste (carnefici e vittime) tornino a vivere insieme. Nel caso di singoli criminali, come Cesare Battisti, la giustizia di riparazione può contribuire ad agevolare uno scambio comunicativo tra le parti, gestito dalla figura del mediatore, evitando una giustizia fai da te e offrendo al carnefice la possibilità di riscattarsi a livello sociale.

La giustizia di riparazione, dunque, abbandona il modello penacentrico tradizionale per abbracciare una visione incentrata sulla riconciliazione sociale che, lungi dall’essere perdono, si configura come possibilità di costruire nuovi spazi di condivisione e come efficace apertura alla rieducazione del condannato, compatibile con un ideale democratico che grida il rispetto della dignità di ciascuno, qualunque ne sia la storia e la condizione.