Ciclicamente ci si chiede cosa sia la filosofia, di cosa si occupi e quali tipi di sviluppi o applicazioni possa avere. Sono domande che impegnano filosofi di tutte le epoche in un confronto serrato che non mira a spegnersi e coinvolge, di tanto in tanto, filosofi continentali e analitici, occidentali e orientali, conservatori e rivoluzionari. I rivoluzionari, in particolare, sono quelli più svantaggiati: individuano le emergenze, isolano le urgenze e trovano nuove e importanti sfide da conoscere e affrontare prima ancora che superare.
Del resto, come diceva Aristotele, a parlare di filosofia si fa solo altra filosofia e ce lo ricorda anche il filosofo Luciano Floridi che riprende la massima aristotelica nel suo ultimo libro Pensare l’infosfera, la filosofia come design concettuale edito da Raffaello Cortina Editore.
Il libro, fortemente divulgativo, è anche fortemente rivoluzionario.
Come lo è l’intera proposta teorica del filosofo italiano, ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Università di Oxford: è proprio di rivoluzione, e in particolare della quarta, che si tratta, quanto a quadro storico di riferimento.
Dopo la prima rivoluzione copernicana, la seconda darwiniana, la terza freudiana, la storia dell’essere umano è pronta ad attraversare la rivoluzione ipertecnologica, postumana, virtuale. Ogni aspetto delle nostre vite subisce gli effetti rivoluzionari della nuova dimensione dell’Infosfera. Le informazioni ci plasmano e dominano, ci informano, formano e decostruiscono, e affrontare il nuovo scenario significa conoscerlo, ripensarlo e ripensare l’essere umano in relazione a esso.
È in questo senso che si colloca una nuova filosofia, un nuovo modo di fare filosofia e di costruire una rete teoretica forte e aggiornata che sappia pensare alle nuove sfide tecnologiche e quindi, irrimediabilmente, umane.
Del resto, la filosofia oltre a fare domande e offrire risposte, sintetizza, costruisce, genera; e prendendo in prestito le parole di Floridi la filosofia vive come una pianta in relazione simbolica con altri saperi configurandosi come un design concettuale.
Ed è proprio di design concettuale che si è parlato durante il primo dei tre incontri – in realtà al momento due a causa dell’ordinanza per l’emergenza sanitaria in atto – che Luciano Floridi ha tenuto al Teatro Franco Parenti di Milano nel mese di febbraio. La filosofia intesa come design concettuale significa proprio montare e smontare i problemi formulando domande giuste e dando risposte giuste. In questo contesto, dunque, non c’è più spazio per le domande assolute che hanno caratterizzato la ricerca filosofica per secoli come Che cos’è l’essere?, ma è piuttosto necessario porsi quesiti che abbiano un contesto reale sul quale poter ragionare nel concreto.
Quali sono quindi le domande alle quali la filosofia deve rispondere?
Al centro della questio filosofica oggi dovrebbero esserci le relazioni, verso le quali tutti dovrebbero concentrarsi. Se quindi in ambito giuridico la società andrebbe pensata non più basata solo sulla giustizia, ma anche sulla tolleranza, nella politica il centro non dovrebbe più essere la res publica, bensì la ratio publica, intesa come relazioni tra gli individui.
E in questo contesto non può mancare la questione del digitale, che secondo Floridi si pone come la controparte del design: se infatti da un lato il digitale permette un’azione di taglia e incolla dei concetti, dall’altro lato fornisce enormi potenzialità di design. L’avvento del digitale ha imposto un nuovo modo di pensare, è quindi necessario che la filosofia approdi a una nuova logica che permetta di ripensare al mondo ex novo e ciò è possibile solo nel frangente di un reboot della filosofia stessa, che deve essere di informazione e per il nostro tempo.
Nel corso del secondo incontro, Floridi si è concentrato sul concetto di capitale semantico, che definisce: «L’abbondanza di prodotti intangibili […] che noi produciamo, perfezioniamo, consumiamo, trasmettiamo e ereditiamo come esseri umani. Ogni contenuto che può accrescere il potere di qualcuno di attribuire significato e dare senso a qualcosa»(1). Questo capitale è fondamentale, perché è ciò che usiamo per semanticizzare la realtà che ci circonda.
Qual è l’eccezionalità dell’umano rispetto alle macchine?
Da una parte, questa capacità di dare e riconoscere un significato e un senso complessivo al mondo; dall’altra parte, l’apertura: l’uomo è un open software, un sistema aperto, la cui malleabilità permette di reagire alle sfide contemporanee. La metafora che Floridi utilizza è quella del mollusco e della perla: come la perla viene generata da sollecitazioni esterne, allo stesso modo l’uomo genera risposte, attingendo al suo capitale semantico. Il grande vantaggio di questa “source of semanticization” è che è anche una “re-source”.
L’inglese ci aiuta a capirne meglio la natura: il nostro patrimonio non è un nucleo statico, ma una fonte che a sua volta crea nuovo capitale semantico, anch’esso utilizzabile. Per questo è importante salvaguardarlo: né dev’essere smarrito o utilizzato male, né ritrovarsi “museificato” e perdere quindi la sua natura di risorsa. Come ricorda Nietzsche (2), rischiamo di diventare, altrimenti, «enciclopedie ambulanti». L’educazione, in questo senso, è importantissima: non bastano le nozioni, bisogna insegnare a sfruttarle per far fronte al continuo cambiamento.
(1) trad. «A wealth of intangible products […] that we produce, refine, consume, transmit, and inherit as humans. Any content that can enhance someone’s power to give meaning to and make sense of something»
(2) F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1974.
Grazie Raffaello Cortina Editore!
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