
Grazie, Giulia, per aver accettato di partecipare a quest’intervista per Filosofemme. Mi piacerebbe iniziare dal tuo percorso personale, e più precisamente dal tuo primo incontro con il femminismo. Nell’introduzione del tuo ultimo libro Fare femminismo (Nottetempo, 2024) scrivi di essere entrata in contatto con il femminismo fuori casa e grazie a una parola di Adriana Cavarero. Ti va di raccontarci meglio questo incontro?
Per me è stata fondamentale la parola, alla faccia di chi dice che il linguaggio non conta e non serve a niente. Quando sono entrata per la prima volta nell’aula di filosofia, la mia insegnante di filosofia politica, Adriana Cavarero, si stava rivolgendo alla classe usando il femminile plurale. Ogni volta si alzava un virile brusio di protesta e alla fine della lezione lei se ne andò consegnandoci una domanda: «Perché quando uso il plurale maschile nessuna si lamenta?». È bastato poco, i veli si sono squarciati in fretta e in modo definitivo. E quelle parole mi hanno rimessa al mondo in un modo e con una consapevolezza differente, dando però voce a qualcosa che dentro casa, e prima degli anni dell’università, avevo senza saperlo già vissuto attraverso mia madre che mi aveva mostrato, crescendomi, una serie di strategie e di pratiche di relazione che oggi posso nominare con le parole del femminismo.
Fare femminismo è un titolo chiaro e incisivo. Parli di un «arsenale di pratiche», ma quali pensi siano le prime pratiche da cui iniziare per chi vuole avvicinarsi al femminismo? Da dove possiamo cominciare a “fare femminismo”?
Dalla pratica della relazione, innanzitutto con i testi delle pensatrici che ci hanno precedute: i femminismi non sono un’opinione. Studiare, leggere, comprendere i differenti movimenti con un approccio storico è dunque fondamentale per connettersi alla genealogia che ogni femminismo riconosce come fondamentale al proprio interno e per trovare un proprio posizionamento al loro interno. E poi ci sono la relazione con le altre in carne e ossa e la necessità, per non essere solo spettatrici, di attraversare i collettivi e gli spazi. Il femminismo non stabilisce confini tra teoria e prassi ed è una pratica collettiva: non è un’etichetta, non è un feticcio, non è qualcosa che si può capitalizzare a uso personale, non è uno spazio affollato di slogan precostituiti o di parole d’ordine. Il femminismo a cui sono vicina non è dunque quello rimasticato dai social né il cosiddetto femminismo della parità o “femminismo di Stato”, che vuole più donne senza che poi ci sia una trasformazione reale per tutte e per tutti. Questi femminismi “pacificati” entrano nelle istituzioni o sono in relazione con esse, ritengono illusoriamente che il patriarcato sia un fenomeno del passato che sopravvive nel presente e che finirà nel futuro. Il femminismo radicale invece pensa che il sistema patriarcale non sia perfezionabile e intende dunque andare alla radice del problema per sovvertire il modello, sostituendo la speranza che le cose cambino con la forza necessaria a cambiare: è conflitto, non garanzia; si nutre sempre di un pensare insieme, è uno spazio in cui ci si prende cura delle condizioni perché libertà ci sia, per le donne e per ogni altra soggettività. Faccio mie le parole di due compagne, Carlotta Cossutta ed Elisa Virgili: «Non ci si affida al femminismo come a un’ideologia politica carica di promesse per il futuro, ma è una postura del corpo, del pensiero e del desiderio che scardina il reale con la promessa di sostituirlo non con un domani migliore, ma con un oggi imprevisto».
Spesso nel parlare di femminismo ci focalizziamo sulle donne e su ciò che possono fare loro concretamente, ma qual è il ruolo degli uomini? Come possono contribuire in modo costruttivo e rispettoso alle lotte per la parità di genere?
Il femminismo è nato da una semplice e concreta constatazione: appartenere al sesso femminile, nascere donne invece che uomini, significa trovarsi al mondo in una posizione di svantaggio. I femminismi si sono dunque prodotti nel corso della storia a partire dai processi di esclusione a cui le donne sono state sottoposte. Come a dire che uno è il punto di partenza: le donne, che decidono di prendere parola e di mettere in discussione, per modificarla, una certa relazione di potere. E le donne sono i soggetti che hanno fatto i femminismi. Proprio perché non stiamo parlando di un’ideologia, di un punto di vista o di una “corrente di pensiero” ma di un movimento storico, sebbene originalissimo rispetto a quelli con cui abbiamo familiarità, non sono a mio agio quando un uomo si definisce femminista. Sarebbe più corretto parlare di uomini alleati del femminismo, pronti cioè a decostruire collettivamente i loro ruoli a partire dalle posizioni di privilegio che occupano nel mondo.
Nei primi capitoli del tuo libro affronti il tema del diritto all’aborto, delle lotte per ottenerlo e delle pratiche inventate dalle donne per praticarlo in autonomia, anche quando la legge non lo riconosce. In un tuo articolo su Lucy – Sulla cultura hai scritto «Difendiamo l’aborto, non la legge». In effetti, la situazione della legge italiana 194 oggi non è quella che ci augureremmo. Siamo davanti a un ritardo senza precedenti: la relazione sull’attuazione della legge ancora non è stata presentata e mancano persino i dati del 2021. Qual è, secondo te, il significato di questo ritardo? E quali le conseguenze di questa mancanza di attenzione verso i diritti delle donne?
Il significato è antico: la pervicace volontà di controllo dei corpi. Quella a cui assistiamo oggi è un’ondata reazionaria, una risposta reattiva per rimettere le donne al loro posto, quelle donne e quelle soggettività che hanno violato i valori familiari tradizionali o la legge divina, che hanno scardinato un’autorità paterna che ora si vuole invece riaffermare. L’attacco ai corpi delle donne e delle soggettività che si discostano dalla cosiddetta norma viene oggi da più parti, capaci di allearsi: dalle destre radicali e dagli integralismi religiosi. Per quanto riguarda l’Italia, la presidente Meloni ha negato che qui ci siano problemi di accessibilità all’interruzione di gravidanza, mette sullo stesso piano la libertà di abortire e quella dei medici di fare obiezione e fin da subito ha detto di non voler né abolire né modificare la 194, ma di volerla applicare pienamente. Questo è un problema perché di fatto quella legge contiene già tutto ciò che può ostacolare e di fatto ostacola un libero accesso all’aborto. Ma la risposta a una legge insoddisfacente non può solo essere solo una legge migliore. Una buona legge può aiutare e non sto dicendo di farne a meno, ma cerchiamo di riguadagnare una posizione anche critica verso le istituzioni e ciò che possono concedere. Il diritto non è una garanzia e può agire perfino come un alibi per non fare l’essenziale, che viene prima e va oltre il riconoscimento di una legge.
Negli ultimi tempi si sente sempre più parlare del movimento 4B, nato in Corea del Sud, che propone scelte femministe radicali come rifiutare sesso, matrimoni, figli e anche qualsiasi appuntamento con uomini. Nel tuo libro, invece, scrivi di un altro approccio radicale, ovvero quello di Stella Nyanzi e della “maleducazione” come pratica politica. In un’epoca in cui il dissenso viene spesso addomesticato, pensi che la maleducazione possa essere una risposta efficace alle disuguaglianze di potere? Quali rischi o resistenze si incontrano? E pensi che scelte radicali come queste possano rappresentare una strada possibile anche in Italia e in Europa?
La maleducazione così come la intende Nyanzi è una pratica che spezza la femminilità tradizionale così come è stata costruita all’interno del patriarcato, ha a che fare con la rabbia e con il conflitto a cui ci siamo e ci hanno fatte disabituare. Le pratiche che di fronte all’uso violento del potere non rinunciano alla forza rifiutano la pacificazione ed esplorano la sfida e la disobbedienza, respingono in un solo atto il galateo dell’oppressione stabilito dagli oppressori, mettendo in scacco coloro che pretendono civiltà di fronte al suo esatto contrario. Questa radicalità è secondo me necessaria nonostante abbia storicamente spaccato il movimento, fin dagli inizi, a partire dalle suffragiste: non solo per quanto riguarda le pratiche ma anche nella lettura della realtà. Un pezzo di femminismo si è dato come obiettivo quello di scalare le strutture patriarcali pensando che fossero emendabili. Un’altra parte di femminismo pensa che il sistema patriarcale vada rovesciato. E visto che le strutture di oppressione e di violenza sono spesso la legalità quel che serve va oltre la via legale. La contrapposizione al sistema deve essere dunque radicale, non controllabile e, come dicevano le Rote Zora tra gli anni Settanta e Novanta nella Repubblica Federale Tedesca, «non deve fermarsi ai limiti posti dallo Stato: deve continuare a “minacciare la tranquillità nel cuore della bestia”». Disimparare a non battersi e fare il funerale alla femminilità tradizionale la cui costruzione si basa su una serie di codici comportamentali fatti di mansuetudine, docilità, buona educazione, pace e pacificazione è già di per sé una leva per la liberazione. Questo ribalta le dicotomie vittima-carnefice, porta a riposizionarsi nel mondo non come oggetti né come soggetti vulnerabili, toglie il terreno da sotto i piedi di chi i paradigmi di genere li ha costruiti. Non agire con tutta la forza necessaria ha finito invece per diventare funzionale alla neutralizzazione delle stesse pratiche femministe e dei loro contenuti.
Dato che Filosofemme si propone di valorizzare il pensiero delle filosofe donne, c’è una filosofa o un’attivista femminista che secondo te meriterebbe di essere riscoperta, oppure più conosciuta, oggi?
Difficile comporre un pantheon. Per me è stata e resta particolarmente significativa Virginia Woolf che nella prima metà del Novecento pone delle domande serie e centrali su ciò che le donne hanno fatto e ottenuto fino a quel momento con le loro lotte per l’uguaglianza rispetto agli uomini, mettendo in dubbio la validità stessa dell’obiettivo dell’uguaglianza e individuando un percorso completamente nuovo in cui a essere valorizzata sia innanzitutto la differenza. La questione fondamentale, la numero uno, quella radicale e che influenzerà la storia del femminismo fino ai giorni nostri, con Woolf diventa dunque: in nome di cosa le donne esigono la libertà? Nonostante siano donne o proprio perché lo sono? E qual è l’obiettivo della lotta? Con le sue risposte e posizioni Woolf anticipa alcune pratiche del femminismo che diventeranno centrali negli ultimi decenni e nella vita di molte. E lo fa con sarcasmo, ironia, mettendo in discussione ogni tradizione, irridendo i meccanismi del potere, rovesciando e ribaltando lo sguardo sulla società e sulle costruzioni sociali per come venivano già date.
Per concludere, ti chiederei una frase di speranza. Cosa possiamo augurarci che il femminismo porti alle, e nelle, società contemporanee?
Chi fa femminismo, chi attraversa quello spazio vivo, presente e pieno di desiderio sa bene come la felicità sia una delle misure del movimento. Sa come quella relazione politica sprigioni energie e creatività. Perciò, mi auguro semplicemente che saremo tutt* più felici.
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