Girlhood. In un corpo di ragazza

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Quando penso al corpo, la prima cosa che mi viene in mente è quel tappeto magico di cui parla Clarissa Pinkola Estés in Donne che ballano coi lupi (1), cioè lo immagino come lo strumento che ci permette di muoverci nel mondo e di conoscere a partire dalle esperienze che grazie ad esso possiamo fare.

Se però poi mi soffermo un attimo e rifletto su cosa sia il corpo per me, realizzo le verità ben più dolorose di cui parla Melissa Febos nel suo Girlhood. In un corpo di ragazza (2). 

Per moltissime donne il corpo prima o poi passa dall’essere quel tappeto volante ad incarnare una prigione, un ostacolo che le limita, le spaventa e le espone alla violenza patriarcale. Febos individua questo cambiamento nel passaggio dall’infanzia alla pubertà, quando il corpo delle bambine va incontro a un’esplosione che le spinge a vederlo da un’altra prospettiva. 

L’autrice racconta di come sia cresciuta guardando Wild America, un documentario incentrato sulle terre e gli animali selvaggi del nord degli Stati Uniti e di come si sia sempre riconosciuta in quella natura indisciplinata.

«Ero una bambina entusiasta, coi calli ai piedi e una grande abbondanza di parole» (3): non aveva paura di sbucciarsi le ginocchia, sfidava i bambini nella corsa vincendo il più delle volte e un fremito le percorreva la schiena quando doveva decidere se definirsi un impala o una leonessa. 

Ma, nel momento in cui il suo corpo matura, assumendo nel giro di pochissimo tempo forme che prima non c’erano, quella spavalderia e sicurezza nel comportamento svanisce nel nulla.

«Il mio corpo un tempo energico si fece oggetto passivo» (4) scrive Febos, che in quegli anni inizia a capire che i cambiamenti nel suo aspetto andassero di pari passo con una modifica del suo valore nel mondo. 

Come è capitato a molte di noi, la piccola Melissa inizia a sospettare che qualcosa nel suo corpo avrebbe determinato la sua posizione nel mondo e che quest’ultima sarebbe stata nettamente diversa rispetto a quella dei suoi compagni maschi.

Nel disperato tentativo di nascondere il proprio corpo «eccessivo nei punti sbagliati» (5) sotto «strati di vestiti oversize» (6) e di fare di tutto per apparire più piccola, più fragile, più delicata, la guerra contro sé stessa ha inizio.

«Quello di cui avevo bisogno per sopravvivere alle scuole medie, guarda caso, era l’opposto di ciò di cui avrei avuto bisogno per sopravvivere su Wild America» (7). 

Le sedute di autoanalisi e critica a cui sottopone il suo corpo davanti allo specchio diventano sempre più frequenti e scaturiscono dal costante confronto che scatta tutte le volte che si rende conto di non assomigliare per nulla alle sue amiche e compagne di scuola. Il senso di vergogna e di inadeguatezza per non rispecchiare i canoni di bellezza che la società americana le impone si riversa su una parte specifica del corpo che non può essere seppellita sotto vestiti troppo larghi e che sembra essere sempre lì, pronta a ricordarle la sua diversità: le mani.

«Avevo trascorso più di dieci anni a mascherare il resto del mio corpo con modifiche sartoriali, ma le mani le avevo vergognosamente grandi, sfacciatamente grandi. Non c’era verso di nasconderle». (8)

Quello che capirà molti anni dopo è che l’odio verso se stessa non era autoprodotto, ma derivava dall’ambiente esterno, motivo per cui poteva essere fermato.

Prendendo in prestito le parole di Sartre (9), se è lo sguardo degli altri a definirci, tanto valeva per Febos avvicinarsi a coloro che la facevano sentire bella, desiderata, ovvero gli uomini. Il racconto dell’adolescenza dell’autrice è disseminata di episodi di violenza e sofferenza a cui lei, e molte altre donne che prendono parola in questo libro, va incontro con la convinzione che quella sia la normalità. Accettare controvoglia i desideri degli uomini che le stavano attorno era per lei l’unica maniera di dimostrare il proprio valore. Ma la necessità di compiacere gli uomini è qualcosa che le donne imparano per due motivi: dovere e sopravvivenza. 

Il primo è un insegnamento di lunga data: soddisfare l’uomo è un compito che viene imposto alle donne dalla più tenera età e che diventerà un dovere morale nel momento in cui si sposeranno. Invece, il secondo motivo si lega alla sicurezza delle donne, nel senso che rifiutare un uomo risulta difficile, non solo perché siamo programmate per esaudire ogni suo desiderio (Ada, un’amica dell’autrice, dice che il patriarcato «ci colonizza il cervello come un virus») (10), ma perché ne va della nostra incolumità. Il rifiuto oltre ad essere qualcosa a cui non siamo abituate, è qualcosa che il nostro istinto ci sconsiglia, perché in fondo sappiamo che può portare a maggior violenza. Addolcire il rifiuto, ad esempio sorridendo imbarazzate davanti a una molestia per non deludere o mettere in imbarazzo l’uomo, è il modo che conosciamo per “negoziare il consenso” (11).

«Per proteggere noi stesse dobbiamo proteggere loro, architettare un modo per evitare di respingerli o costringerli a non guardare mai in faccia i loro torti. Spesso il nostro corpo è la sola merce di scambio che ci resta in questo tentativo. Non è questione di come evitare di comprometterci, ma di come attenuare quel compromesso.» (12)

Il lavoro di cura a cui le donne sono chiamate non si ferma nemmeno davanti alla violenza maschile, in quanto la loro contentezza garantisce la nostra salvezza. Ma non solo: se dobbiamo assicurare la soddisfazione degli uomini che abusano di noi, allo stesso tempo è nostro dovere rassicurare quelli bravi, quelli che obiettano che “non tutti gli uomini”.

«Non vogliono essere temuti, ed ecco che è compito nostro correggere la paura che proviamo. E cioè: è ovvio, essere una donna violentata che teme le ricapiti in qualsiasi momento è una merda, ma non quanto lo è sentirsi feriti nei sentimenti» (13).

Il punto a mio parere fondamentale su cui Febos ritorna più volte è che essere femministe consapevoli non basta per vivere libere da qualsiasi influenza patriarcale: «avevo scoperto cosa fosse lo sguardo maschile, ma non sapevo come estirparlo da me stessa» (14). Avere le conoscenze e gli strumenti necessari per saper individuare i meccanismi attraverso cui il sistema patriarcale opera e si riproduce non sempre basta a proteggerci. 

E allora cosa possiamo fare? 

Sulla scorta di quello che leggiamo nelle pagine di Girlhood possiamo ascoltarci e lo possiamo fare in due modi: possiamo connetterci con noi stessə instaurando con il nostro corpo un dialogo, una “pratica attiva di cura” (15), ma possiamo anche accogliere le storie delle donne che fanno parte della nostra vita, riconoscerci nelle loro parole e amarci tramite esse.

È vero che veniamo plasmatə dallo sguardo dellə altrə, ma se imparassimo a fare il contrario, cioè a ricercare noi stessə in chi ci circonda e a vedere in loro aspetti di noi che disprezziamo, non sarebbe forse un primo passo per arrivare a, se non amare, almeno accettare anche quelle parti di noi che ci sembrano insopportabili?


Grazie Nottetempo!

M. Febos, Girlhood. In un corpo di ragazza, trad. F. Principi, Milano, nottetempo, 2023.

Note

(1) C. Pinkola Estes, Women Who Run With the Wolves: Myths and Stories of the Wild Woman Archetype, New York: Ballantine Books, 1992; trad. di M. Pizzorno, Donne che corrono coi lupi, Milano: Sperling & Kupfer, 2016.

(2) M. Febos, Girlhood. In un corpo di ragazza, trad. F. Principi, Milano, nottetempo, 2023.

(3) Ivi, p.94.

(4) Ivi, p.34.

(5) Ivi, p.28.

(6) Ivi, p.103.

(7) Ivi, p.102.

(8) Ivi, p.111. 

(9) Secondo quanto scrive il filosofo Jean-Paul Sartre ne L’essere e il nulla ognuno di noi è posseduto dallo sguardo dell’altro, che ci forma e che ha su di noi un potere, in quanto ci concepisce in un modo che noi non potremo mai esperire. Attraverso lo sguardo esterno dell’altro la nostra soggettività si aliena in una realtà fuori della portata della nostra conoscenza. 

(10) Ivi, p.194.

(11) Ivi, p.197.

(12) Ivi, p.208.

(13) Ivi, p.148.

(14) Ivi, p.129.

(15) Ivi, p.231.