
Viviamo in un’epoca che rifugge sistematicamente il dolore, in cui ogni emozione scomoda viene zittita, ogni disagio medicalizzato, ogni vuoto interiore colmato di stimoli infiniti, che desidera un’anestesia (1) perenne che doni la capacità di non sentire più dolore, la fatica, la sofferenza.
Rick Dufer in “Critica della ragion demoniaca” sostiene che
«in una società in cui l’analgesico è sempre a portata di mano e il benessere è riuscito a penetrare ogni anfratto della vita, è molto facile fraintendere la natura e la funzione del dolore. L’idea che soffrire sia una malattia e non il sintomo di una malattia ha convinto molti che intervenendo sul dolore si riesca a debellare la malattia» (2).
Ma l’analgesico non solo non elimina la causa della sofferenza, ne nasconde anche il segnale, impedendo di scoprirne le vere radici.
Siamo sempre più abituatə al sollievo immediato e sempre meno capaci di restare nella profondità di un’emozione.
Nel nostro sistema di valori, il dolore è diventato un errore da correggere, un’anomalia da curare, ma non tutto ciò che fa male è sbagliato, anche perché non può verificarsi una vera guarigione che non passi da un confronto con la ferita. In questo senso il dolore ci strappa alla superficialità, ci costringe a fermarci, a interrogarci.
Questa tendenza a fuggire dalle difficoltà della vita è aggravata al giorno d’oggi dalla quantità e dalla disponibilità dei mezzi di fuga: dal flusso continuo di video su TikTok e su YouTube alle app di gioco, dallo scroll infinito di Instagram al binge watching delle serie TV su Netflix, tutto nel vano tentativo di riempire un vuoto di senso che nessun contenuto potrà mai compensare.
La sofferenza che proviamo non è però sempre causata dalla mancanza di qualcosa, spesso, secondo Dufer, siamo solo disfelici, ovvero
«in uno stato nel quale l’individuo si illude di poter raggiungere (o di aver già raggiunto) uno status di disfelicità, senza accorgersi di essere stato ingannato da una sorta di “miopia”. Immerso nella disfelicità, io sono convinto di essere felice, perché ricevo segnali ben precisi in quella direzione, ma in verità sto precipitando in un abisso che rappresenta l’esatto contrario della felicità» (3).
È forse l’inganno più sottile del nostro tempo, dato dalla sovrabbondanza continua e incontrollata di input esteriori creati per renderci illusoriamente felici, per farci confondere la distrazione con la pienezza, l’assenza di dolore con la gioia, per renderci anestetizzati e incapaci di trasformare davvero la nostra vita.
Si innesca così un circolo vizioso in cui la persona disfelice, immersa in questi input esterni, si rende completamente cieca e sorda alla propria interiorità, al proprio autentico sentire: se dentro di me non sono in grado di vedere più nulla, se mi disconnetto dalla mia anima, il vuoto che sento dovrò colmarlo per forza con ciò che sta fuori.
L’uomo contemporaneo fatica a tollerare la lentezza e il dolore di questi processi interiori che obbligano a una ridefinizione del proprio io: «la realtà è una materia spigolosa, e la relazione con essa è fatta perlopiù di ematomi» (4), il mondo non è fatto a nostra misura, non risponde ai nostri desideri e alle nostre aspettative, anzi impone una ricostruzione continua della nostra vita e di noi stessi tramite gli errori, le cadute, i fallimenti.
In un mondo che fugge, scegliere di restare è un atto radicale: nel disagio, nel corpo, nel sentire. Perché è lì, esattamente lì, che inizia la trasformazione.
Ogni cosa autentica richiede durata e presenza, ma oggi preferiamo ciò che è veloce, facile e già confezionato. Tuttavia, per ritrovare se stessə è fondamentale rallentare, rispettare i propri tempi, affrontare un’emozione per volta, prendersi dei momenti di pausa, recuperare un tempo interiore che ci appartiene.
In questo contesto la gratitudine emerge come atto profondamente sovversivo e trasformativo.
È attraverso la gratitudine infatti che si può rompere la catena dell’iper-dipendenza, poiché sposta lo sguardo da ciò che manca a ciò che c’è, da ciò che si pretende a ciò che si riceve. Essere gratə significa riconoscere il valore del semplice fatto di esistere, delle piccole cose, del tempo condiviso, della presenza, del dolore stesso come segnale e insegnamento, significa amare.
È l’amore infatti, la forma più alta di gratitudine, il custode della nostra interiorità.
Chi ama non è più schiavə degli eventi, non teme di perdere, al contrario, trova la forza per rimanere integrə, per accogliere il mutamento, per rispondere alla vita con senso, anche di fronte al fallimento, al lutto, alla morte.
«Colui che ama sa affrontare la fine di una relazione, perché non smette di amare quando smette di essere amato. Colui che ama sa dare un senso alla morte di un genitore o anche di un figlio, perché sa che questo dipende dal suo atto di amare e non dall’esistenza altrui. Colui che ama sa comprendere i cambiamenti che lo circondano, perché l’amore lo rende aperto ad accogliere le mutate circostanze. Colui che ama non sarà gettato nel nichilismo quando un sogno si infrange, ma troverà la forza di amare quelle strade alternative che il cambiamento porterà con sé. Colui che ama è il tramite di forze che lo rendono non colpevole ma responsabile, non autore ma protagonista, non vittima ma interprete, non zombie ma anima autonoma» (5).
In un’epoca in cui la fuga dal dolore ha assunto i tratti di una nuova normalità, tornare a interrogarsi sul senso profondo della sofferenza diventa un atto rivoluzionario. Non si tratta di esaltare il dolore, ma di riconoscerlo come soglia: una ferita che può diventare passaggio, uno smarrimento che può trasformarsi in risveglio, un messaggero che ci chiama a ricomporre l’unità perduta tra anima e corpo.
Siamo chiamatə a non lamentarci del destino, ma a prendercene cura. A dire sì a ciò che ci è toccato in sorte, sapendo che proprio lì, dove non avremmo voluto andare, si apre lo spazio di una possibilità autentica: quella di risvegliarci.
E allora torniamo a essere gratə per ciò che siamo e ciò che abbiamo, torniamo a pensare con coraggio, ad abitare con consapevolezza la nostra interiorità, ad accogliere, senza difese, la fatica e la bellezza di essere vivə.
BIBLIOGRAFIA
- Anestesia è un termine che deriva dal greco ἀναισϑησία cioè “insensibilità”, formato da ἀν- ossia “senza” e αἴσϑησις ovvero “sensazione”, letteralmente “privazione di sensazione”.
- R. Dufer, Critica della ragion demoniaca, Feltrinelli, Milano 2024, p. 33.
- Ivi, p. 53.
- Ivi, p. 36.
- Ivi, p. 184.
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