Poor Things: una guida alla felicità

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Spoiler alert: presenza di dettagli a rischio spoiler, ma confidiamo che andiate a vedere Poor Things e tornerete qui.

Tra fantascienza, satira, cinismo e viaggio di formazione, Poor Things, già premiato a Venezia e con ben undici nominations in tasca per varcare le porte degli Oscar, ci incolla allo schermo per seguire la storia di Bella Bexter nello steampunk diretto da Yorgos Lanthimos.

La storia prende sin da subito la nostra completa attenzione: stiamo assistendo alla formazione di una creatura strappata alla morte – o meglio, al suicidio – grazie all’intervento di uno scienziato che opera il trapianto del cervello del feto che una donna portava in grembo nel suo corpo di adulta, con tutte le conseguenze cognitive che questo comporta.

È God a creare Bella, anzi Godwin, come il filosofo e politico che sposò Mary Wollstonecraft, filosofa centrale nella ricostruzione storica del pensiero femminista all’altezza della Rivoluzione francese. L’intreccio qui non è casuale, se pensiamo che proprio la coppia diede alla luce Mary Shelley (1), ricordata come la penna dietro alla celebre figura di Frankenstein, riferimento della satira di Alesdair Grey da cui il film è tratto (2).

Sicuramente la storia del celebre mostro e dello scienziato che gli diede la vita riecheggia in tutta la narrazione, ma se 3 personagg3 a primo impatto non sembrano essere altro che una riproposizione dei ruoli de3 protagonist3 del romanzo, in realtà di loro non restano che labili echi letterari privi di consistenza: Bella, e questo lo dice anche il nome, è agli antipodi della rappresentazione del mostro nell’immaginario comune, e che sia creatura di God  si pone fuori da qualsiasi piano discorsivo tanto teologico quanto scientifico.

God (Dio in inglese) gioca certo sul filo del rasoio tra la vita e la morte, portando al limite dell’assurdo e sicuramente del fantascientifico le possibilità di sperimentazione sul corpo umano, ma non è né Dio padre né Dio creatore.

Bella è infatti “orfana”, “viene dal nulla” e Godwin Bexter nega esplicitamente tanto il suo ruolo di paternità (come ruolo sociale tradizionale del pater familias simbolo di autorità) tanto di creatore, in quanto il suo grado di partecipazione alla vita della sua “creatura” è quella di osservatore, il cui compito è la mera annotazione dei suoi sviluppi evolutivi.

Bella non è ciò che Godwin ha creato, ma ciò che lei stessa saprà creare nel suo viaggio di scoperta di sé ed esplorazione del mondo.

In questo suo percorso la protagonista sembrerebbe percorrere le classiche fasi del viaggio di formazione, ma, contrariamente al Wilhelm Meister di Goethe, questo viaggio non termina con un’adesione alle norme sociali e neppure con una frattura rispetto a esse vivendo all’insegna dell’immoralità.

Piuttosto, si assiste alla creazione di un mondo dove i problemi della morale tradizionale, e soprattutto il doppio standard della morale vittoriana (3) messo completamente alla berlina, cessano di essere posti come tali: essi vengono svuotati e non possono esercitare alcun tipo di presa in un universo meccanicistico dove l’individuo è semplicemente quello che è, fuori da ogni etichetta definitoria.

Passando dalla scoperta dell’autoerotismo all’esperienza della prostituzione, dal ruolo di madre e di moglie – con il ribaltamento che questi prendono nell’arco temporale della storia -, Bella non può essere infatti etichettata come “donna”, semplicemente perché “donna” è il frutto di una specifica costruttività storica che stabilisce un nesso tra il fatto di avere un corpo e il ruolo e il significato che questo acquisisce socialmente.

Se anche la già citata Mary Wollstonecraft aveva posto il costume sotto condanna per aver creato l’uomo e la donna come mostri artificiali (4), qui il “mostro”, la povera creatura che nel parallelismo con Frankenstein sarebbe chi è originato contro natura, è proprio chi paradossalmente incarna meno questa definizione: Bella non può essere il mostro perché la sua individualità è, in termini spinoziani, la chiara manifestazione della potenza del suo essere, ovvero diretta manifestazione della natura stessa. 

Bella, al di là di ogni costruzione ed etichetta sociale che non riescono a definirla, è in primis un essere desideroso di affermare la propria esistenza: in questo senso il motore propulsivo della sua spontaneità e spinta esplorativa può essere definito come qualcosa di simile al conatus di Spinoza (5), ovvero come tensione verso la realizzazione del proprio sé e l’espressione attiva della propria natura.

È Spinoza, infatti, ad aprire filosoficamente quella via di liberazione votata alla gioia come aumento della propria potenza ad agire, via che Bella percorrerà col suo ingresso nel mondo.

Non si chiede infatti cosa deve fare, ma al contrario fa quello che può fare e decide di farlo non sulla base di un’aprioristica definizione di bene o male, ma in relazione all’aumento o alla diminuzione della sua felicità (6). 

È una favola della soggettività quella che ci attacca al grande schermo dominato da Emma Stone, che, a metà tra il viaggio di formazione e la narrativa satirica dell’età vittoriana, ci spinge alla ricerca di una risposta alla domanda che muove costantemente in avanti la protagonista.

Famelica e mai sazia di conoscenza rispetto al mondo, con cui si rapporta con una curiosità infantile e spontanea fino a portarla alla propria autodeterminazione, ci fa chiedere: è possibile un miglioramento?

Le cose, le persone, il mondo: può tutto cambiare per il meglio?

Una ricerca della felicità che si muove all’interno di un universo meccanicistico, compiuta da chi non vuole arrendersi all’idea di un’antropologia negativa, di una realtà dominata dalla crudeltà in cui l’umanità pensa solo al proprio utile personale, ma da chi al contrario non è che una povera creatura che vuole trovare un’alternativa al cinismo e all’assurdità che popolano atemporalmente il mondo.

Non si tratta di far giocare il mito del buon selvaggio di Rousseau contro lo scenario hobbesisano di lotta di tutt3 contro tutt3, anche se molti passaggi sembrano suggerirlo, ma di affermare una dimensione in cui il dibattito natura-civiltà perde il suo senso in un Bildungsroman sui generis che, operando una trasvalutazione di tutti i valori, può far dire a Bella quel sì alla vita, con la clausola che sia quella vita dove l’alternativa è possibile, ed è possibile realizzarla. 

Non ci resta quindi che iniziare a vedere il mondo con gli occhi di Bella: se il suo senso di orrore nei confronti di esso è determinato dal non aver avuto un’educazione che l’abbia deformata in conformità al mondo stesso e dal non aver quindi acquisito la capacità di compiere azioni malvagie legate all’invidia e alla codardia che incontra ovunque nel suo viaggio, è chiaro che un margine d’azione per quell’inversione di rotta verso la propria liberazione c’è.

E allora iniziamolo anche noi questo viaggio, questa costruzione di un mondo sfavillante che realizzi attivamente questo margine di miglioramento.

Chiunque può allora essere una “povera creatura” alla ricerca della felicità: che questo comporti fare uno sforzo (conatus) fa parte del gioco e del viaggio stesso nella conoscenza.

Ma questo lo avevamo già appreso da Spinoza:

«anche se appaia alquanto ardua, la via che ho mostrata condurre a tutto ciò, tuttavia la si può intraprendere. E arduo non può non essere, senza dubbio, quando si ritrovi tanto di rado; ché come potrebbe mai accadere che la salvezza venga trascurata da quasi tutti, se essa fosse a portata di mano e si potesse trovare senza grande fatica? Vero è che tutto quanto sia eccellente è tanto difficile quanto raro (7)».

  1. I riferimenti non finiscono qui: Mary Wollstonecraft tentò effettivamente di suicidarsi gettandosi, come Vittoria, la donna il cui corpo è stato sottoposto all’operazione che darà vita a Bella, da un ponte sul Tamigi. Anche per lei il suicidio non andò a buon fine e anche lei perderà la vita dandone al mondo un’altra: Vittoria quella di Bella, Mary Wollstonecraft quella di Mary Shelley, madre a sua volta di Frankenstein.
  2. A. Grey, Poor Things, Londra: Bloomsbury Paperbacks, 1992.
  3. Con doppio standard si intende il diverso giudizio di ciò che è ritenuto moralmente accettabile o inaccettabile sulla linea della differenza tra i sessi. 
  4. Cfr. M. Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman, 1993. 
  5. “Lo sforzo (conatus) con cui ogni cosa cerca (conatur) di perseverare nel proprio esistere, non è altro che la sua essenza in atto.” E3p7, Spinoza.
  6. Qui si può trovare un punto di convergenza tra Spinoza e Nietzsche nell’idea dell’inesistenza del bene e del male in termini assoluti e nella centralità della categoria di “potenza”. 
  7. B. Spinoza, Etica, traduzione, introduzione e note di Sergio Landucci, Bari: Laterza, 2009, p.295.