Ontologia del male e cronaca nera: riflettiamo con Stefano Nazzi

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Stefano Nazzi

Il lupo e Cappuccetto Rosso, Adamo ed Eva, Twin Peaks… da sempre ci confrontiamo con il male attraverso le fiabe della buonanotte, l’educazione cattolica e le serie tv.

Impariamo che il male nasce dall’ingordigia, dalla disobbedienza o è una forza oscura che si può impadronire di ognuno di noi. Ma il male non è presente solo nei racconti. Fin dall’infanzia i telegiornali sono stati, almeno per la maggiorparte di noi, un sottofondo costante dei pranzi di famiglia, da cui abbiamo appreso che il male non è solo quello delle favole, ma esiste realmente, più vicino e meno misterioso di quanto pensiamo. Nonostante l’abitudine, lo shock che proviamo di fronte alla notizia di un truce omicidio è sempre la stessa: dolore per la vittima, tristezza per i familiari e, a livello generale, incredulità. Com’è possibile che dei tranquilli liceali abbiano stuprato delle ragazze? Perché una coppia di anziani ha assassinato i vicini di casa?

Questo desiderio di comprendere l’origine del male è, a mio avviso, uno dei motivi del grandissimo successo di Indagini, podcast vincitore della seconda edizione del Pod – Italian Podcast Award. Stefano Nazzi, il brillante giornalista de Il Post che ne cura gli episodi, racconta «storie di cronaca, di cronaca nera, di cronaca giudiziaria» (per citare le note parole introduttive dello stesso autore). Nel podcast, come nel suo ultimo libro Il volto del male. Storie di efferati assassini, Stefano Nazzi ribadisce che il suo mestiere non è quello di dare spiegazioni (1), ma di raccontare storie.


Eppure, proprio ascoltare queste storie ci esorta a ragionare su quello che è un problema metafisico e morale da sempre affrontato nei dibattiti filosofici.


Dall’intellettualismo socratico, passando per i discorsi sulla teodicea in Agostino e la filosofia moderna, fino alla riflessione di Hannah Arendt, il male non ha mai smesso di affascinare perché riflettere sulla sua origine vuol dire riflettere sulla natura dell’uomo e sulle possibilità della morale di influenzare le sue azioni.


Leggendo o ascoltando le storie di crimini, possiamo individuare alcuni dei motivi che spingono le persone a fare del male.


La prima ipotesi è che esso venga compiuto da chi lo ha subito. Luigi Chiatti, Il Mostro di Foligno, nel 1992 uccise Simone Allegretti, 4 anni, e nel 1993 Lorenzo Paolucci, 13 anni. Tempo prima degli omicidi, aveva iniziato a mettere da parte vestitini e altri beni indispensabili per crescere dei bambini. Il suo piano era rapirli dalle loro famiglie e viverci insieme per 7 anni. 7 anni… lo stesso tempo da lui passato in orfanotrofio prima di essere adottato (2). Un periodo trascorso all’insegna di una rigidissima educazione e, ma questo solo secondo voci non accertate, di abusi.

Conoscere il male rende la persona malvagia? Forse, oppure è non conoscere il bene a farlo.  Socrate avrebbe detto proprio questo: il vizio è figlio dell’ignoranza del bene, le azioni cattive derivano dalla non conoscenza di che cosa sia agire secondo virtù. Si allaccia bene questa considerazione, pur anacronistica, con i casi che vedono protagonisti assassini con trascorsi di violenza subita, educati, letteralmente, al male.


La seconda ipotesi che si può desumere da altre storie di cronaca – dal caso Ludwig (3) alla banda dell’acido (4) – è che il male sia considerato uno strumento di purificazione.


Quindi, il male non è in sé un valore a cui aspirare, ma un mezzo necessario per realizzare uno scopo più elevato. Si pensi ad alcune atrocità commesse in nome di un ideale: le crociate, le stragi naziste, il genocidio cambogiano. Le idee che sorreggono questi crimini sono tutte differenti (religione, superiorità della razza ariana, necessità di affermare il comunismo rifiutando la corruzione occidentale), ma di base c’è sempre lo stesso presupposto: l’esistenza di una visione suprema in virtù della quale compiere atti criminali trova la sua giustificazione.


La terza ipotesi, probabilmente la più scioccante, è la noia. L’uccisione di suor Maria Laura Mainetti nel 2000 è motivata così dalle tre ragazze di Chiavenna che la uccisero (5).


Ma cosa maschera la noia? Il desiderio di emergere, la richiesta di attenzione o ancora, come hanno ipotizzato in modo fuorviante all’epoca dell’omicidio, l’adesione a una setta satanica. La noia sembra una spiegazione inconcepibile, a cui bisogna trovare a sua volta una spiegazione

Come è evidente, il male ha origini diverse e si manifesta in varie forme: può essere pianificato oppure sorgere improvvisamente, può essere sanguinoso e punitivo oppure non lasciare tracce. Per questo, più che del volto del male, bisognerebbe parlare dei volti del male. Certo, questa sua poliedricità rende più difficile classificarlo e dargli una spiegazione univoca, sebbene non solo la filosofia, ma anche la scienza abbia provato a definirlo.

Dal 2018 Morten Moshagen, Benjamin E. Hilbig, Ingo Zettler,  tre professori di psicologia, hanno iniziato a condurre esperimenti per creare una tassonomia del male, identificando nel “Dark Factor” il principio alla sua base.

Il Fattore D viene definito come «la tendenza generale a massimizzare la propria individualità, ignorando, accettando o provocando malvolentieri la disutilità degli altri, nella convinzione che tale egoistico atteggiamento sia una giustificazione sufficiente» (6). Il Fattore D è presente in ogni individuo, sebbene esso abbia varie intensità e assuma forme peculiari, come il narcisismo o il sadismo. Questa teoria sembra avvalorare la pionieristica intuizione di Kant, che nel parlare del “male radicale” interpreta il male in chiave soggettivistica: stando al filosofo tedesco, l’uomo racchiude in sé la possibilità di volgere al bene quanto al male, e il perpetrare un’azione malvagia è vista come una scelta che può compiere, in quanto essere libero, contravvenendo alla legge morale a cui dovrebbe subordinare le inclinazioni (7).

Approfondendo il tema, ripenso sempre a quando ero bambina e il telegiornale mandava in onda la notizia della sentenza giudiziaria di un omicidio, mostrando il volto dell’assassino: una persona comune, una madre di famiglia, un uomo di mezz’età stempiato o un adolescente come tanti. La reazione, a dieci anni come adesso, è sempre la stessa: incredulità, tristezza e sconforto verso l’umanità.


Ma dopo lo sconforto, paradossalmente, mi conforta la convinzione (forse ingenua) che, finché ci sentiremo sconvolti dal male, sarà più difficile perpetrarlo a nostra volta.






(1) Stefano Nazzi, Il volto del male. Storie di efferati assassini, Mondadori, Milano, 2023, p.7.

(2) Ivi, p.17.

(3) Ivi, capitolo II.

(4) Ivi, capitolo V.

(5) Ivi, capitolo IV.

(6) https://www.darkfactor.org/#:~:text=The%20definition%20of%20D,beliefs%20that%20serve%20as%20justifications 

(7) K. Jaspers, Das radikal Böse bei Kant, trad. it. Roberto Celada Ballanti, Il male radicale in Kant, Morcelliana, Brescia, 2010.