[In Italia] Il numero di assistibili di età uguale o maggiore di 18 anni in trattamento con farmaci antidepressivi nell’anno di riferimento 2015 è risultato pari a 1.356.650. […] La prevalenza del trattamento è risultata in aumento rispetto l’anno precedente (+1,1% nel 2015 rispetto al 2014). [1]
Gli impressionanti numeri indicati dall’osservatorio dell’Agenzia Italiana del Farmaco mostrano dati molto importanti e comprendenti un quantitativo sostanzioso di persone. Ho riportato qui il dato italiano per poter avere un paragone con la mastodonticità delle cifre leggibili nel testo Felicità Artificiale di Ronald W. Dworkin in riferimento alla popolazione americana. Vengono trattati con farmaci non solamente le forme più acute di depressione, bensì anche quelle lievi, spesso bypassando quelle che sono le dimensioni meno molecolari e più umane delle soluzioni. Felicità Artificiale si inserisce in questo processo, come analisi del fenomeno nella sua totalità. Un libro indagine, vissuto come un viaggio nel Novecento americano, che ha visto innumerevoli tentativi di riaffermazione della medicina di base come figura di riferimento nella vita e nelle case delle persone comuni. Dalle terapie di medicina alternativa al fitness passando per placebo ed endorfine, i medici di base hanno cercato di sopravvivere tra le sempre maggiori specializzazioni e interazioni continue tra le diverse ramificazioni del sapere scientifico. Ciò che ha determinato il continuo mutamento di questa figura è il pesantissimo parere dell’opinione pubblica, composto dalle famiglie locali alla ricerca di un medico meno meccanico e più umano, rapido nelle soluzioni e non evasivo.
Zoloft, Wellbutrin, Xanax, Prozac e Paxil sono solamente alcuni dei nomi citati in questo testo, che sottolinea continuamente come la linea di demarcazione tra infelicità e malattia sia veramente molto sottile, ma non inesistente; una perenne ricerca di un rimedio rapido e al passo con la società che non può tollerare individui esenti dal benessere mentale e dalla felicità intesa come obiettivo sociale. Pena: la credibilità della sua struttura. La tossicità si intreccia, dunque, con la struttura del benessere in sé dove, come nel più contemporaneo dei paradossi, il raggiungimento del secondo si compie rapidamente tramite supporto farmacologico. Il sorriso plastico indossato dalla bambola nella copertina del libro rappresenta perfettamente ciò che intende l’autore quando, riportando alcuni casi di pazienti, sostiene: «lui la chiama “felicità”, ma normalmente la felicità è una reazione alla vita»[2], sottolineando il peso dell’elemento artificiale.
Ronald W. Dworkin, anestesista e filosofo, riesce così a delineare la duplicità della scienza, sempre più attenta alla cura di tutti gli aspetti che compongono il soggetto tramite una cultura bioetica degli argomenti.
Il ricorso alla soluzione farmacologica è certamente un progresso nella cura delle patologie mentali e della depressione in senso quanto più generico – non è questo che viene contestato. Se, invece, il ricorso alla Felicità Artificiale viene utilizzato ad ogni costo risulta essere dannoso, poiché secondo l’autore anestetizza il senso critico dell’individuo che intraprende questo percorso. Tramite l’intorpidimento di una percezione reale delle proprie emozioni e della criticità del mondo e delle situazioni circostanti, la personalità viene messa da parte e il raggiungimento di una felicità reale diviene praticamente impossibile.
FONTI
[1] Agenzia Italiana del Farmaco, L’uso dei Farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Anno 2015, p. 299 http://www.aifa.gov.it/sites/default/files/Rapporto_OsMed_2015__AIFA.pdf
[2] Dworkin D. W., Felicità artificiale, Marco Tropea Editore, Milano 2009, p. 12.
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