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Parlare di suicidio non è mai facile. Parlare di suicidio non è mai facile sebbene siano numerosi i film o le serie tv che trattano di questo tema, ultima fra tutte la nota Thirteen reasons why di Netflix.


Nonostante la difficoltà e la responsabilità che questo argomento porta con sé è di vitale importanza parlarne.


Si può morire per delle idee, uno dei più celebri episodi in ambito filosofico è certamente quello di Socrate, il quale, rinchiuso in cella, decise di porre lui stesso fine alla sua vita ingerendo della cicuta. Si può morire per amore, come la tragica eroina Anna Karenina nel romanzo di Tolstoj. Si può morire per colpa della malattia e dei propri demoni interiori, proprio come l’altrettanto sconvolgente storia di Virginia Woolf. 

«Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare […] Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.» (1)

In questo estratto la scrittrice inglese lascia il suo addio al marito Leonard, decidendo di annegare così corpo e mente nelle acque di un fiume. Un gesto che denota anche il profondo amore di Virginia nei confronti del suo amato e colmo di desiderio che il proprio dolore non ingoi anche l’animo del partner.


Ma il suicidio è allora un atto d’amore o di puro egoismo?


Si chiamano sopravvissuti coloro che riescono a vivere nonostante il tentativo di porre fine a quella vita. Personalmente darei questo nome anche a chi rimane in vita dopo la perdita di un caro per il medesimo atto. Una madre e un padre che devono portare avanti il fardello di sapere che il proprio figlio è morto di depressione, o viceversa. Giovani o adulti uomini e donne che perdono un amico o amica e magari sono stati incapaci di notare un profondo cambiamento in loro, la corda che si è spezzata definitivamente e ha fatto crollare tutte le speranze. 

È facile incorrere in frasi banali e scontate quando si parla di temi scomodi e caldi, meno facile è affrontare le proprie cicatrici, la propria sofferenza e parlarne a viso aperto o parlarne e basta, tramite qualsiasi mezzo. La depressione, l’autolesionismo, gli attacchi di panico, la profonda disistima che si prova nei propri confronti non vanno mai affrontati con superficialità, né tantomeno sono da minimizzare in soggetti che reputeremmo “fortunati”.

Spesso ci meravigliamo nello scoprire di certe celebrità affette da depressione o che più volte hanno tentato il suicidio. Si pensi a Lady Diana Spencer: “Ma come? Una principessa? Ma ha i soldi, la fama, bei vestiti, servitori, due figli”. Vogliamo davvero classificare chi si merita di stare male e chi no? Vogliamo, soprattutto, definire il denaro e il successo come i soli connotati per una piena felicità? Decisamente no. 


Numerose sono, fortunatamente, le associazioni che si occupano di prevenzione in fatto di suicidio.


Una fra queste, e a me personalmente molto cara proprio per il motto di cui si fanno portavoce, è il Semicolon project. Così Amy Bleuel, fondatrice di questa associazione dal 2013, spiega la simbologia dietro la propria creazione: «Il progetto nasce dalla richiesta di disegnare un punto e virgola sul proprio polso così da mostrare supporto [ai sopravvissuti]. Il punto e virgola è stato scelto perché in letteratura è usato quando lo scrittore decide di non terminare una frase.

Tu sei l’autore e la frase è la tua vita. Tu decidi di continuarla»(2). Una semiotica comune e che unisce una comunità di sopravvissuti e lottatori. 

Io stessa ho tatuato un punto e virgola sul mio polso, cosicché possa ricordarmi ogni giorno che non c’è situazione che possa “stopparmi”, cosicché possa prevenire il mio male e fare in modo che certi pensieri non tornino più, che le mie corte unghie non tornino a torturarmi la pelle così come i denti di un paio di chiavi. Il primo passo verso una sana autocoscienza è parlarne con qualcuno, ma prima di tutto con se stessi. Superare la vergogna dei propri gesti, dei propri pensieri e di quello che le persone potrebbero pensare di questo, perché finché si respira, finché si è saldi alla propria persona allora c’è rimedio; ma quando si mette fine a ogni cosa allora no, lì non rimane che buio e la propria personale sconfitta contro il proprio mostro.


(1) https://libreriamo.it/libri/commovente-lettera-virginia-woolf-al-marito/
(2) mia traduzione della citazione. Cfr. https://people.com/celebrity/project-semicolon-empowers-people-who-suffer-from-depression/ 

Sitografia:
https://projectsemicolon.com/