Un deserto che monologa: Violette Leduc

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Leduc

Violette Leduc nasce nel 1907 ad Arras, nel nord della Francia, figlia di una cameriera e del proprietario di casa. Il titolo del suo romanzo più celebre lascia inequivocabilmente comprendere come si sia sempre identificata: La bastarda. Un attributo che contiene come un fagotto il groviglio di emozioni e stati d’animo che contraddistinguono l’intera vita di Leduc: la colpa di essere nata, di aver sottratto sua madre a un posto di lavoro che le fruttava qualche spicciolo, di costare dei soldi che non ci sono, di necessitare di cure che non ci si può permettere, di aver rovinato la vita alla sua famiglia, un microcosmo popolato esclusivamente da donne (sua madre, sua nonna e la sua madrina). 

«Sono nata il 7 aprile 1907 alle cinque del mattino. M’avete denunciato l’8. Dovrei esser contenta d’aver cominciato le mie ventiquattr’ore fuori dai registri. E invece, le mie ventiquattr’ore senza stato civile m’hanno intossicata. […] Suppongo che tutte e tre voialtre vi siate domandate se un cuscino sul mio muso color pomodoro non fosse preferibile all’avvenire che vi imponevo.» (1)


Così Leduc si affaccia alla vita adulta con l’angoscia di chi non si sente in diritto di esistere, e con il senso di solitudine e di isolamento di chi pensa che abbia sempre qualcosa da farsi perdonare, confortata solo dalle presenze femminili che le fanno da scudo.


Quando però sua nonna muore, e sua madre dopo qualche anno si sposa con un uomo che non è suo padre, tagliandola quasi del tutto fuori, Leduc viene spedita in collegio, e si sente estremamente tradita

«Hai messo al mondo un fiume di lacrime, madre mia. Ho preso il velo, madre mia. Sì, più tardi spesso sbattevo le porte, non vi sopportavo. La mia ferita si riapriva. La mia ferita: tu, strappata a me. Gelosa? No. Nostalgica sino alla vertigine. Ripudiata nonostante le tue gentilezze, madre mia. Oh sì, esiliata dal nostro piumino che ci scaldava durante i bombardamenti.» (2)


In collegio conosce l’amore, in forma breve e intensa con la sua compagna di stanza e poi con una delle sue istitutrici, che verrà licenziata per questo, corroborando in qualche modo il filo rosso che nella vita di Leduc unisce l’amore al senso di colpa, sempre inestricabilmente legati.


La scoperta della sfera sessuale resta tuttavia una delle fonti privilegiate della sua creatività letteraria, facendo dei suoi romanzi un’esplorazione appassionata e quasi elegiaca della sessualità femminile in ogni sua sfaccettatura, ma non solo: l’amore che Leduc offre all’Altro è instabile, incoerente, mutevole e capriccioso, intriso di angoscia e solitudine, e questo è chiaramente mostrato nei passi nei quali racconta le sue infatuazioni maschili. Si invaghisce di due uomini omosessuali, per poi sposare un suo vecchio amico; un matrimonio emotivamente fragile e violento, che ben presto finirà in separazione

L’incontro determinante, destinato a cambiare il corso della sua vita, avviene però nel 1945. Leduc ha da poco cominciato a scrivere, ma non ha ancora consegnato alle stampe il suo primo manoscritto; Parigi è stata liberata, c’è aria di festa e di sollievo. Al Café de flore, iconico locale parigino, la aspetta Simone de Beauvoir, che da questo momento in poi diventa amica sincera e fedele sostenitrice. De Beauvoir è affascinata da questa donna che la idolatra, inconsapevole del proprio talento eppure dotata di una potenza espressiva senza pari. Nelle sue parole:

«Ogni scrittore che racconta di se stesso aspira alla sincerità. Ciascuno ha una propria sincerità, che differisce da tutte le altre. Io non conosco una sincerità più integra di quella di Violette Leduc. Colpevole, colpevole, colpevole, la voce di sua madre risuona ancora in lei: un giudice misterioso la insegue. Nonostante questo, grazie a questo, nessuno può intimidirla. I torti che noi potremmo imputarle non saranno mai così gravi come quelli di cui la gravano i suoi invisibili persecutori. Violette ci squaderna davanti tutto il dossier della sua vita, affinché noi la assolviamo dal male che non ha commesso.» (3)


È lei, insieme con pochi altri (Sartre, in primis), che finanzia e promuove l’attività letteraria di Leduc, nonostante il silenzio generale che accompagna l’uscita dei suoi romanzi, e l’inattualità cui è condannata con la sua onestà sfrenata che rischia di presentarsi come sfacciataggine o debolezza.


Solo nel 1964, quando dà alle stampe il suo La bastarda, arriva la notorietà, simile a un fiume in piena che rischierebbe di travolgere chi ha sempre vissuto nella povertà, abituandosi a far economia anche sui beni di prima necessità. Ma Leduc non si fa cambiare dal successo, e continua a scrivere con pari intensità e a innamorarsi con pari urgenza

«“Io sono un deserto che monologa”, mi ha scritto una volta Violette Leduc. Io nei deserti ho trovato innumerevoli bellezze. E chiunque parli a noi dal profondo della propria solitudine, ci parla di noi.» (4)






(1) V. Leduc, La bastarda, Neri Pozza, Vicenza, 2021, p. 30.

(2) Ivi, p. 72.

(3) Ivi, pp. 15-16.

(4) Ivi, p. 5.

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