Sorry we missed you: il dramma dell’ultimo miglio

0
704

Il commercio online, o e-commerce, è una vera rivoluzione perché ci permette di fare acquisti in tutto il mondo da casa nostra, comodamente e velocemente sul divano, tramite un semplice click, vale tremila miliardi di dollari ed è un mercato in costante crescita.


Ma che conseguenze ha tutto questo?


Ken Loach, regista inglese molto attento alle problematiche dei ceti meno abbienti che ha diretto film del calibro di I, Daniel Blake, Riff-Raff, The Angel’s share e vincitore di due Palme d’oro al Festival di Cannes, ci mostra uno spaccato molto interessante sui lavoratori della cosiddetta gig economy (tradotto dall’inglese “economia dei lavoretti”): una nuova frontiera dell’economia digitale affidata a lavoratori freelance, ma gestita da una piattaforma online che riguarda tutti quei lavori che normalmente una persona svolgerebbe a tempo perso.

Sorry we missed you, uscito in Italia il 2 gennaio 2020, ha come protagonista la famiglia Turner composta da Ricky, la moglie Abby (assistente domiciliare per anziani e malati con contratto a zero ore, dunque pagata a visita) e i loro due figli Seb e Liza Jane, che vivono in una casa in affitto a Newcastle. Ricky, dopo aver svolto diversi lavori, decide finalmente di mettersi in proprio e diventare il capo di se stesso con la speranza di guadagnare abbastanza soldi per poter comprare una casa.

Così inizia a lavorare come corriere freelance, ma le sue aspettative andranno presto deluse una volta resosi conto che questo nuovo lavoro, che sembrava una concreta possibilità di riscatto sociale, in realtà non solo gli assorbe la maggior parte della giornata (tempo che sottrae alla famiglia), ma si rivela psicologicamente usurante e senza nessuna tutela, tanto che deve assumersi tutti i costi o provvedere ai rimpiazzi quando è costretto ad assentarsi.


Questo film è una vera e propria denuncia sociale che mostra uno spaccato di cruda realtà che spesso e volentieri non percepiamo.


Da consumatori, infatti, non ci poniamo domande: compriamo e basta e non pensiamo assolutamente al tipo di vita e ai ritmi massacranti (perché parliamo anche di undici ore di lavoro) a cui questi lavoratori sono sottoposti, e, in questo senso, il film è una doccia fredda, perché dal mondo virtuale ci fa piombare nella realtà e ci mostra, con un crescendo di drammaticità, tutte le problematiche che un lavoro di questo tipo porta con sé, che non riguardano solo la freneticità, la consegna nei tempi perfetti, eccetera, ma anche le ripercussioni psicologiche sulla vita privata di queste persone.


«Il problema della gig economy» – dice lo stesso Ken Loach in un’intervista fatta da Teresa Paoli per PresaDiretta andata in onda su Rai3 – «è che i lavoratori possono aprire o chiudere il rubinetto quando vogliono.


Sono lavoratori alla spina, finti lavoratori autonomi su cui il datore di lavoro non ha nessuna responsabilità. Quindi, se vanno in vacanza, perdono soldi; se si ammalano, perdono soldi», insomma, è un lavoro essenzialmente precario e senza nessuna tutela per i diritti del lavoratore.

L’avvento dell’e-commerce ha rivoluzionato i rapporti di produzione, perché tutto il processo di ordine online viene seguito da un algoritmo che guida il più velocemente possibile le merci al centro di smistamento da dove queste verranno caricate sui furgoni per percorrere l’ultimo miglio, ovvero il tratto di strada che farà arrivare la merce ordinata direttamente sotto casa nostra: facile, veloce, efficiente, o almeno così sembra.


In realtà molti studi (come ad esempio quello del MIT di Boston) hanno rivelato che questo sistema, soprattutto per le consegne fast, non solo si rivela estremamente impattante sull’ambiente – si pensi che Amazon produce 44,40 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 –, ma in tutta questa macchina virtuale l’unico contatto umano che abbiamo è quello col corriere che viene a fare la consegna.


Il lavoratore è infatti costantemente monitorato dall’algoritmo che calcola non solo il percorso, ma addirittura i minuti che ci vogliono, una volta fermato il furgone, per raggiungere una casa ed effettuare la consegna, senza considerare che i tempi perfetti che calcola una macchina sono molto difficili da mettere in pratica, in quanto si devono tenere presenti una serie di variabili (traffico, condizioni metereologiche, ricerca del pacco nel furgone, peso di quest’ultimo e via dicendo).

Questa corsa frenetica contro il tempo ha come conseguenza il fatto che la sicurezza sul lavoro passa, in maniera completamente automatica, in secondo piano, per cui ad esempio è più facile che aumenti il rischio di fare incidenti perché, per risparmiare minuti, si commettono infrazioni per strada (che ovviamente sono tutte a carico del driver, perché l’azienda per cui lavora è svincolata da qualsiasi responsabilità), si salta la pausa pranzo perché anche soddisfare quella che è una mera esigenza fisiologica fa perdere tempo, e anche i rapporti umani sono ridotti al minimo perché una chiacchiera in più è sinonimo di inefficienza e il tempo è letteralmente denaro.


Insomma, i lavoratori diventano macchine, automi efficienti e veloci e questa, che sembra essere una cosa quasi assurda, purtroppo è la realtà dei fatti.


In Italia operano circa ventitremila corrieri che spesso e volentieri sono pagati a cottimo, cioè non in base alla quantità di ore lavorate, ma in base al numero di consegne effettuate. Se, ad esempio, il corriere non trova il destinatario di un pacco e non riesce a effettuare la consegna non viene pagato e ha solo perso tempo.


Se ci fosse più trasparenza e chiarezza su tutto ciò, i consumatori avrebbero comunque la pretesa che la merce ordinata arrivi in ventiquattro ore?


Probabilmente la maggior parte di essi risponderebbe di no e si mostrerebbe più flessibile. È chiaro che tutto questo è un problema politico, perché chi ci governa ha il compito di regolamentare, tutelare e non distruggere i diritti dei lavoratori. L’informazione, la consapevolezza e la riflessione critica servono ad ognuno di noi per orientare la politica in una prospettiva umana che tenga conto delle esigenze di tutti, non solo di chi consuma. Lo sviluppo tecnologico di per sé è un qualcosa di neutrale, sta a tutti noi incanalarlo verso una strada positiva a favore dell’umanità e del benessere comune.





Si consiglia, per approfondimenti sul tema, la visione dell’inchiesta di Teresa Paoli andata in onda su PresaDiretta (Rai 3) disponibile all’url: https://www.raiplay.it/video/2020/01/presa-diretta—vite-a-domicilio-6b5c2824-c8cf-4be4-b620-fbe7e7641a2b.html

La foto di copertina è un’immagine ufficiale di Sorry we missed you. Il copyright della suddetta è pertanto di proprietà del distributore del film, il produttore o l’artista. L’immagine è stata utilizzata per identificare il contesto di commento del lavoro e non esula da tale scopo – nessun provento economico è stato realizzato dall’utilizzo di questa immagine. / This is an official image for Sorry we missed you. The image copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist. The image is used for identification in the context of critical commentary of the work, product or service. It makes a significant contribution to the user’s understanding of the article, which could not practically be conveyed by words alone.