Che cos’è l’arte?

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Arte

Quando si entra in un museo di arte contemporanea, spesso si prova una sensazione di smarrimento e incredulità. Come è possibile che certi oggetti informi o addirittura di uso quotidiano possano godere della stessa considerazione della Primavera del Botticelli o di Amore e Psiche di Canova? Come mai gli oggetti che abbiamo di fronte sono ritenuti opere d’arte se guardandoli ho l’impressione che anch’io avrei potuto realizzarli senza particolari difficoltà tecniche? Se questa è arte, allora vale tutto! Insomma, se anche questa è arte, allora che cos’è l’arte? 


Questa domanda di non secondaria importanza è al centro delle fatiche di un filosofo contemporaneo poco conosciuto e recentemente scomparso: George Dickie.


Come accade quasi sempre al giorno d’oggi, Dickie è stato un accademico per tutta la vita e la sua produzione filosofica si è espressa attraverso libri (come Art and the Aesthetic, an Institutional Analysis) e articoli pubblicati su riviste di settore (come Defining Art, pubblicato su “American Philosophical Quarterly” nel 1969). Occupandosi di estetica nel contesto statunitense, l’approccio che caratterizza le sue teorie è quello analitico, che conferisce alle sue opere uno stile snello, volto a trasmettere i contenuti in modo chiaro ed essenziale, evitando fronzoli o divagazioni non necessarie.


Ma in che modo ha risposto alla domanda “Che cos’è l’arte?”


In controtendenza rispetto allo spirito del tempo, tra gli anni ’60 e i ’90 Dickie ha sostenuto che fosse possibile dare una definizione di opera d’arte capace al tempo stesso di catturare la specificità di questa categoria di oggetti e di lasciare spazio all’infinita libertà di artistə e nuove forme d’arte. L’elemento fondante del suo metodo è l’istituzionalità dell’arte, e perciò la sua teoria — in entrambe le versioni proposte — prende il nome di Institutional Theory of Art. 

Al centro dell’Institutional Theory of Art c’è l’idea che, sostanzialmente, sia arte tutto ciò che viene trattato come tale da una comunità più o meno estesa di esseri umani e istituzioni, che Dickie chiama Artworld, il mondo dell’arte.

«Con approccio istituzionale intendo l’idea che le opere d’arte siano arte in quanto occupano una certa posizione all’interno di una cornice istituzionale o contesto.» (1)

In quest’ottica, gli oggetti che di volta in volta divengono opere d’arte acquisiscono questo status poiché sono inseriti all’interno di un contesto sociale, culturale e istituzionale che conferisce loro questo nuovo ruolo e lo riconosce attraverso la costruzione di una complessa serie di rituali e comportamenti che, in quel contesto, sono tipici dell’arte. Questi possono essere la collocazione nei musei, le aste d’arte, il pagamento di un biglietto per fruire dell’opera, la rappresentazione in un teatro, il discutere di tali opere nei libri d’arte, eccetera.


In sostanza, se qualcosa viene trattato come se fosse un’opera d’arte, allora diventa tale. 


Se pensiamo a opere come Fountain di Marchel Duchamp o ai Brillo Box di Andy Warhol, che nei testi di Dickie emergono continuamente come esempi, osserviamo che questa teoria ci consente di spiegare in modo piuttosto semplice come un oggetto di uso quotidiano (o che ne ha l’aspetto) possa facilmente diventare un’opera d’arte, senza che ciò faccia perdere dignità all’arte classica o senza che ciò rimetta in discussione lo statuto artistico di opere come quelle di Michelangelo. Ciò che accade in questi casi è che il significato della parola “arte” si espande, include ora nuovi casi e oggetti. 

Questa teoria può risultare un po’ antipatica, perché sembra non soddisfare la nostra principale aspettativa quando ci rifugiamo in una definizione: aiutarci a distinguere ciò di cui stiamo parlando da ogni altra cosa. Tuttavia, a ben vedere la Teoria Istituzionale dell’Arte opera effettivamente questa distinzione, anche se non in modo rigido. Questa fluidità — se così vogliamo chiamarla — è inoltre il suo principale punto di forza, e risponde a una delle esigenze fondamentali del suo autore. Dickie vuole infatti evitare di formulare una teoria che diventi obsoleta nel giro di pochi anni, lasciando invece ampio spazio per l’innovazione che è tipica dell’arte e anche alla possibilità che lo status artistico degli oggetti possa cambiare nel tempo in seguito a un mutare della sensibilità artistica (2).


Un altro grande punto di forza di questa teoria è l’inclusione del pubblico alle caratteristiche fondamentali del contesto socio-culturale e istituzionale dell’arte.


Il pubblico è un elemento essenziale dell’Artworld e della creazione di arte, non soltanto perché abitualmente le opere sono fruite da un pubblico, ma anche perché, secondo Dickie, sono create in modo da poter essere fruite da esso, anche nei casi in cui, per qualche ragione, questa eventualità non si realizza.

La domanda sulla natura dell’arte rimane, alla fine dei conti, dinamicamente aperta, ma riscoprire le fatiche filosofiche di George Dickie offre uno spunto interessante per approcciare il problema da un punto di vista inedito.






(1) In originale: «By an institutional approach I mean the idea that works of art are art as a result of the position they occupy within an institutional framework or context.» G. Dickie, The Art Circle, Chicago Spectrum Press, Chicago, 1997, p. 7.

(2) In fin dei conti la storia è piena di casi in cui opere che oggi consideriamo dotate di indiscusso valore artistico non venivano riconosciute come tali. 

Bibliografia:

G. Dickie, Defining Art, “American Philosophical Quarterly”, 6, 1969, 3, pp. 254-256.

G. Dickie, Aesthetics, an Introduction, Pegasus, Indianapolis, 1971.

G. Dickie, Art and the Aesthetic, an Institutional Analysis, Cornell University Press, London, 1974.

G. Dickie, The Art Circle, Chicago Spectrum Press, Chicago, 1997.
G. Dickie, Art and Value, Blackwell Publishers Inc., Malden, 2001.