Trasformare la rabbia con la presenza mentale

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Rabbia

Duemilacinquecento anni fa, sotto l’albero dell’illuminazione, Buddha comprese che all’origine dell’infelicità vi sono tre cause: l’errata conoscenza, il desiderio ossessivo e la rabbia (1). 

Tutti noi abbiamo provato emozioni come la gelosia, il rancore, la rabbia.


Ma come possiamo rapportarci concretamente e correttamente a esse, in modo da entrare in contatto con noi stessi e ritrovare la nostra unità interna?


Thich Nhat Hanh nel suo libro Spegni il fuoco della rabbia ci insegna la pratica dell’ascolto compassionevole, della parola amorevole e della pratica del “prendersi cura della propria rabbia” (2): «Se la tua casa va a fuoco, la prima cosa da fare è cercare di spegnere l’incendio, non correre dietro alla persona che credi l’abbia appiccato. Mentre insegui il presunto incendiario la tua casa finirà distrutta dalle fiamme» (3).

Come possiamo prenderci quindi cura della nostra casa?

Abbracciando la nostra rabbia con grande tenerezza, non vedendola come qualcosa da eliminare, come un nemico, ma come un bambino piccolo, prendendocene cura e trasformandola in energia positiva (4).


La felicità è una pratica e dipende da come noi coltiviamo il nostro giardino interno; quando comprendiamo la sofferenza dell’altro siamo in grado di trasformare la voglia di punirlo in desiderio di aiutarlo.


Se riusciamo a farlo possiamo considerarci dei bravi “giardinieri”: «Chi coltiva un orto non si sogna di buttare via i rifiuti organici perché sa di averne bisogno; è in grado di trasformare i rifiuti in compost che a sua volta si trasformerà in lattuga, cetrioli, radicchio e fiori. Anche tu, in quanto praticante, sei una specie di agricoltore biologico» (5).

La felicità è quindi una pratica che ha a che fare con la “coltivazione interiore”, dipende da come noi curiamo ciò che abbiamo interiormente.

Come ci relazioniamo con le nostre emozioni? Come possiamo trasformarle in energie utili al nostro progresso spirituale?

Secondo il pensiero buddista i semi delle nostre emozioni giacciono dentro di noi ed è attraverso i nostri comportamenti e le nostre azioni che possiamo decidere se annaffiare la gioia, la rabbia o il rancore. 

In questi casi ciò che è essenziale è avere consapevolezza delle proprie emozioni negative, senza combatterle, ma semplicemente riconoscendole. La presenza mentale di cui parla Thich Nhat Hanh è poi questa, la capacità di essere consapevoli di ciò che accade nel momento presente. 


La pratica di prendersi cura della propria rabbia consiste nel riconoscerla, prendere atto della sua presenza, accettarla e permetterle di esserci.


Nella nostra coscienza si trovano dei blocchi di dolore, rabbia e frustrazione chiamati “formazioni interne” o anche “nodi” perché ci avvolgono e ci legano, ostacolando la nostra libertà. Quando qualcuno ci fa del male si formano dentro di noi questi nodi interiori che se non riusciamo a trasformare avranno il potere di influenzarci e di determinare il nostro comportamento.

Non a caso la parola sanscrita che indica queste formazioni interne è “samyojana” che significa “cristallizzare” (6). L’unico modo che abbiamo di depotenziare questi blocchi di sofferenza è quello di lasciarli circolare liberamente in noi e ciò può avvenire solo se non ne abbiamo paura. Se impariamo a non temerli, possiamo anche imparare ad abbracciarli con l’energia della consapevolezza per poi trasformarli.

Essere consapevoli di qualcosa è riconoscere che nel momento presente quella cosa esiste: la consapevolezza riconosce la rabbia, prende atto della sua presenza, la accetta e le permette di esserci.


La nostra collera è in noi, ma lo è anche la nostra compassione. 


La funzione principale della presenza mentale è quindi quella di riconoscere, non di combattere. Questa visione profonda diventa così un fattore di liberazione, ciò che ci libera e che permette che avvenga la trasformazione.






(1) https://plumvillage.org/it/books/anger/

(2) Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia, Mondadori, Milano 2020.

(3) Ivi, p. 19.

(4) Ivi, p. 22.

(5) Ivi, p. 24.

(6) Ivi, p. 115.