Asteroid City: la catarsi nel cinema in tonalità pastello

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«Be’, Seltzie, vorrei fare una scena in cui tutti i miei personaggi cadono dolcemente e fiduciosamente nel più profondo e visionario sonno della loro vita in seguito all’esperienza condivisa di un mistero celeste sconcertante e sfolgorante. Ma non so come scriverla.» (1)

Nonostante i casi di Covid non siano spariti, anzi, sono addirittura in aumento (2) nell’ultimo periodo, abbiamo ormai preso l’abitudine di pensare alla pandemia come a un periodo lontano, qualcosa che fortunatamente abbiamo lasciato alle spalle, dimenticato in un cassetto insieme a cumuli di mascherine.

Ma se le dirette di Conte e le code al supermercato sono un ricordo, gli effetti della quarantena sono ancora ben presenti: rigide norme sanitarie in vigore negli ospedali, difficoltà economiche legate all’inflazione e, a livello più strettamente individuale, cambiamenti inaspettati e situazioni transitorie che oggi costituiscono la realtà. 

La rapidità con cui il virus si è diffuso aveva costretto ogni persona a adattarsi frettolosamente a una nuova quotidianità, spesso oscillante tra letto e scrivania. 

A tre anni dal Covid-19, com’è cambiata la percezione di questo periodo? E quali sono stati i maggiori cambiamenti personali? Wes Anderson sviscera la questione nel suo ultimo film, Asteroid City.

Conrad Earp (Edward Norton) ingaggia una compagnia teatrale per mettere in scena la sua pièce, Asteroid City, città americana in cui improvvisamente giunge una navicella aliena. A seguito dello strano evento, l’esercito impone la quarantena per indagare meglio questo mistero piovuto dal cielo. I più piccoli iniziano a porsi grandi domande sull’universo («Che ci sarà, lassù? Qualcosa? Il senso della vita? Forse ce n’è uno»).

Ancora una volta, come già in Moonrise Kingdom o in Rushmore, Anderson descrive l’adolescenza come un’età proattiva e capace di interrogarsi “in grande”: sembra farla coincidere con la meraviglia che muove, con aristotelico riferimento, la riflessione filosofica. Nel contempo, le persone adulte di Asteroid City si ripiegano sui propri drammi personali, come se l’interruzione della vita ordinaria avesse fornito loro l’occasione per riflettere amaramente sulle proprie scelte e di fare il bilancio sulle loro vite.

Ad esempio, il fotografo di guerra Augie Steenbeck, padre apparentemente freddo e distaccato, scopre che a monte del suo atteggiamento c’è l’incapacità di affrontare il dolore per la morte della moglie. La quarantena gli rende impossibile ignorare il proprio malessere, in quanto essere rinchiuso tra quattro mura lo forza a fermarsi e a interrogarsi sull’origine del suo disagio emotivo.

Ma a volte, si sa, non siamo ə miglior giudicə di noi stessə, soprattutto quando si vuole evitare di affrontare apertamente un problema sepolto in profondità.

Per questo, Augie chiede l’aiuto di altri per compiere questo processo introiettivo. Rompendo la quarta parete, si rivolge direttamente al drammaturgo per capire meglio il suo personaggio:

«È buona la mia interpretazione? […] Mi sento perso.»
«Bene.»
«è un tipo così ferito dalla vita. Mi si spezza il cuore. Il mio vero cuore. Ogni notte.»
«Bene.»
«Continuo così?»
«Sì.»
«Senza sapere?»
«Non dovrebbe esserci una risposta lì, nello spazio cosmico? […] Continuo a non capire quest’opera.»
«Non importa. Continua a raccontare la storia.» (3)

Possiamo richiamare, per opposizione, Hegel: riteneva che si potesse comprendere lo svolgersi della realtà, ma la singolarità dell’individuo. Il che comporta nella sua visione che i risultati della storia non possano essere altri rispetto a quelli che avvengono.

Il contributo del singolo al processo di compimento della storia, allora, sembra irrilevante.

Se da un lato il concetto alla base di Asteroid City è proprio che la realtà si viene facendo e che è impossibile analizzare aprioristicamente e parcellarmente il significato degli eventi mentre il processo è ancora in corso, d’altro canto il film sottolinea invece come la realizzazione dell’esistenza sia la somma di scelte individuali la cui correttezza (non in senso morale, ma esistenziale) è difficile valutare nel quotidiano tran-tran.

Invece, fermarsi e uscire dalla propria routine, come fanno i personaggi di Asteroid City, consente di interrogarsi sul tipo di vita che si sta vivendo e di capire se vi si sta bene oppure no.

E rimane aperto, allora, l’interrogativo sulla necessità di un preciso risultato storico: può non essere il frutto delle contingenti singole esistenze messe insieme?

A tre anni dalla diffusione del virus, analizzarne le conseguenze e domandarsi se non potesse andare che così è sicuramente più fattibile, perché l’impellenza di proteggersi dalla malattia è stata scalzata dal desiderio di comprendere quanto e come le persone sono mutate. Fra quattro mura, abbiamo iniziato a pensare alla nostra vita e non poche persone hanno capito di non aver capito nulla su di sé fino a quel momento.

E la conclusione che Anderson trae da questa consapevolezza è positiva: il protagonista sceneggiatore ripete «Non ti puoi svegliare se non ti addormenti» (4), invitandoci a non amareggiarsi troppo sulla nostra condotta passiva, quanto a sperare che averlo realizzato sia un modo per iniziare ad affrontare ciò che ci blocca in una stasi.

Questa frase, tratta dal brano dei titoli di coda (5), rievoca il legame tra il sogno e il cinema. La grandezza dello schermo costringe lo sguardo a muoversi rapidamente, riproducendo lo stesso movimento che l’occhio compie in fase REM.

Dunque, se non puoi svegliarti se prima non ti addormenti, si potrebbe dire che non puoi svegliarti se non vedi un film.

La curiosa associazione tra queste due esperienze che spinge a vedere l’arte come una forma di terapia: come il sogno è un mezzo che consente al subconscio di affrontare le proprie paure, così il film ci consente di vivere vicende che nella vita reale ci farebbero paura, ma che nel confortevole tepore della sala del cinema ci coinvolgono solo emotivamente.

Questo concetto, pienamente inserito nella branca filosofica dell’estetica, non è affatto lontano dalla catarsi antica: proprio Aristotele, riferendosi alla tragedia greca, spiega come la partecipazione di chi fruisce della finzione di scena sia attiva e liberatoria; allo stesso modo nel sogno e nel cinema esperiamo qualcosa che non esiste, ma questo non ci impedisce di piangere, di ridere o di avere paura.

Poi tutto finisce, e torniamo alla “realtà” dopo aver attraversato questa purificazione terapeutica che l’arte è in grado di regalare.

L’idea dell’arte-terapia, insieme ai curiosi soggetti raccontati, al cast brillante e alle solite ambientazioni color pastello, rendono Asteroid City, come del resto gli altri film di Wes Anderson, una bellissima pellicola «tutto tenerezze e finali agrodolci» (6), per dirla con la celebre canzone de I Cani a lui dedicata. 

  1. Asteroid City (2023), regia di Wes Anderson.
  2. https://www.rainews.it/ran24/speciali/2020/covid19/.
  3. Asteroid City (2023), regia di Wes Anderson.
  4. You can’t wake up if you don’t fall asleep
  5. Ascoltabile qui.
  6. Wes Anderson, Il sorprendente album d’esordio de I Cani,  I Cani.