Tra discriminazioni e diffidenze – l’importanza dell’Altro per la nostra identità

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Lo straniero è da sempre una figura misteriosa e inquietante. È uno sconosciuto che invade il nostro mondo, non lo si conosce e, come tutto ciò che non si conosce, non si sa a cosa porterà.

In passato la paura dell’Altro era comprensibile: spesso l’invasore era più forte e causava razzie, guerre e malattie. Nell’epoca della globalizzazione, quando ormai è sempre più difficile fare una distinzione tra Noi e gli Altri, poiché siamo tutti una meravigliosa mescolanza di culture, questa atavica paura non sembra essere sparita.

Ora l’Altro non è più la parte forte, ma è povero e debole. Migra non per conquistare o con fini malvagi, ma per sopravvivere o per avere un’esistenza migliore e degna di essere chiamata tale.

È proprio nel nostro mondo “civile” e senza confini, che tende spesso ad appellarsi ad enti sovranazionali ed internazionali, dove  rinasce, più forte che mai, l’odio verso il diverso.

Negli Stati Uniti si vogliono costruire muri, in Europa si vogliono respingere barconi e, intanto, si insinua tra la gente un odio cieco e sordo, che raramente si piega alle immagini più forti e devastanti. Nel nostro paese di emigrati, non riusciamo ad accettare gli immigrati. Noi che dovremmo capire più che mai questi meccanismi, non siamo più in grado di immedesimarci.

Nella mia mente risuonano i racconti di mia madre, nata in Svizzera, perché i nonni si erano trasferiti per trovare un lavoro e una vita migliori. Non scappavano da guerre, ma erano i cosiddetti “migranti economici”, quelli che noi italiani consideriamo di serie B, perché l’immigrazione è accettabile solo se chi la compie sta morendo di fame o stenti: gli altri sono solo degli approfittatori. Proprio come noi, anche gli Svizzeri non comprendevano questa “invasione” di italiani e mia madre, occhi neri e pelle un po’ olivastra così come mio nonno e come la sottoscritta, era etichettata come “zingara”, con lo stesso disprezzo con cui noi chiamiamo “negri” molti africani.

Con queste immagini in testa sono cresciuta e mentre ieri leggevo i commenti pieni di risentimento e privi di pietà sotto il post di un giornale locale di un ragazzo nigeriano, Imo, lasciato morire in una colonia abbandonata di Cesenatico, rabbrividivo. Il motivo dell’astio è che il Comune gli pagherà i funerali, perché solo e senza famiglia e i commentatori trovavano fosse ingiusto nei confronti degli italiani: ci si occupa troppo di questi stranieri, trascurando i nostri poveri. Perché non pagano anche a noi i funerali? Perché questa gente non resta a casa sua, che noi abbiamo già i nostri problemi?

Mentre leggo, cerco di comprendere il meccanismo che potrebbe contribuire a tali atteggiamenti. Questa gente è cattiva? No, i loro sentimenti sono semplicemente anestetizzati. Nemmeno davanti alla morte riescono a cedere alla pietà, ma non perché siano mostri.

Prima di tutto c’è l’ottusità: non presentano deficit mentali, hanno solo smesso di fermarsi e pensare davvero. Riflettere significa guardarsi dentro e riconoscere l’Altro in Sé e il Sé nell’Altro. Voler trascurare e annientare l’Altro è un po’ come il voler fare del male a Se stessi. C’è una tale insicurezza identitaria, che non riusciamo ad accettare chi è diverso da noi e non capiamo che solo accogliendolo saremmo in grado di fortificarci.

Altro meccanismo che scatta è quello del capro espiatorio, uno dei più antichi dell’umanità. Tra crisi economiche e politiche, il nostro mondo sta dimostrando tutte le falle di questo assurdo e imperfetto sistema, ma risulta difficile assumersi le proprie responsabilità. Allora ecco che la colpa è dello straniero sconosciuto, indigente, misterioso e, di conseguenza, minaccioso.

In tutto ciò, si smette di riconoscere l’umanità dell’Altro, dell’Alieno, che a volte appare così strano da sembrare un vero e proprio extraterrestre. Esso può anche soffrire e morire, che poco importa; possono essere violati i suoi diritti e, anzi, il suo lamento è interpretato come la pretesa di un viziato. Allora il migrante inizia ad essere percepito come un peso e diventa l’origine di tutti i problemi, che in realtà sarebbero la conseguenza di qualcosa di maggiormente complicato e nascosto.

Sentendo questo odio sempre più crescente e pericoloso, nel 2000 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato che il 18 dicembre diventasse la Giornata internazionale per i diritti dei migranti, dopo che 10 anni prima era stata approvata la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.

Il riferimento ai “lavoratori” sembrerà una piccola cosa, ma è tutt’altro, visto che si basa proprio su questo una delle principali accuse ai migranti: ci vogliono rubare il lavoro, che è già poco per noi. Non ci si chiede quale sia la vera origine dei problemi occupazionali e si “facilitano” le cose attribuendo proprio allo straniero, l’ultimo degli ultimi, le colpe di un mondo del lavoro in crisi. Il migrante che fa i mestieri più umili, che noi tendiamo ad evitare, deve, nella nostra mentalità, adattarsi e accontentarsi di quel poco che gli possiamo offrire. Come se già non fossero abbastanza presenti tra gli autoctoni, ecco allora più caporalato, più lavoro in nero e le conseguenti disperate ricerche di un miglioramento della propria misera condizione attraverso viaggi della speranza, su barconi sovraffollati e su mezzi di fortuna.

La scintilla che portò all’approvazione di questa Convenzione è proprio legata a quest’ultimo fatto: nel 1972, quando un camion che avrebbe dovuto trasportare macchine da cucire ha un incidente sotto il tunnel del Monte Bianco, non vengono ritrovati oggetti, ma i corpi di 28 lavoratori originari del Mali. Essi stavano viaggiando da giorni verso la Francia alla ricerca di un lavoro e di una vita migliori.

Nel 1979 l’Assemblea Generale dell’ONU istituisce un gruppo di lavoro con il compito di redigere un’apposita Convenzione che, però, come spesso accade a causa di profonde divergenze tra gli Stati, viene alla luce solo il 18 dicembre 1990, quindi più di dieci anni dopo. Questa “odissea” non finisce qui: essa entra in vigore addirittura nel 2003, perché solo allora riesce a raggiungere il numero minimo di ratifiche previsto.

Il fatto da evidenziare è che ancora oggi, purtroppo, la Convenzione annovera solo 47 ratifiche, quasi tutte appartenenti ai Paesi di provenienza dei flussi migratori; l’Italia non è tra di essi, così come il resto dei Paesi europei.

Nel 2010, in occasione dell’anniversario dall’adozione della Convenzione, è stata lanciata dall’ONU una campagna internazionale per promuovere tale ratifica che, però, nel concreto non sembra avere effetti né sulle posizioni dei governi, né sulla mente del popolo.

In cosa consiste la Convenzione? A grandi linee, essa prevede il riconoscimento di una particolare vulnerabilità dei lavoratori migranti e promuove condizioni di lavoro e di vita dignitose e legittime.

Non si limita, però, a far riferimento al lavoro, ma invita al rispetto dei diritti umani e propone una serie di norme e disposizioni con il fine di limitare abusi e sfruttamento.

È proprio per questo, quindi, che nasce questa giornata promossa dal Forum Sociale Mondiale di Dakar del 2011. Essa dovrebbe ricordare a tutti coloro che danno per scontati i diritti dei migranti, che non lo sono. La pretesa di interventi per la loro salvaguardia non è un capriccio, ma è una richiesta sacrosanta; essa dovrebbe essere tutelata, tanto più dopo un secolo di genocidi come è stato il Novecento, che ci ha ben dimostrato a cosa la loro violazione possa portare. Ogni essere umano in quanto tale, di qualunque etnia e paese, nasce con dei diritti, che non possono essere mai dati come scontati.

Questa giornata dovrebbe quindi essere un remind a pensare, a non dimenticare il passato, ma anche ad amare noi stessi: perché solo accogliendo l’Altro, possiamo acquisire quella sicurezza identitaria di cui oggi siamo tanto carenti.


FONTI

Arendt A., La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2013.

https://www.unicef.it/print/5246/18-dicembre-giornata-per-i-diritti-dei-lavoratori-migranti.htm