La sanguinosa indipendenza algerina e il ruolo della donna
La lotta per l’indipendenza algerina, scontro che ha segnato profondamente lo Stato nordafricano e quello francese, è un conflitto che non tutti conoscono; chi l’ha vissuto non ne parla o per dolore o per omertà.
Il primo novembre 1954 ebbe inizio la guerra d’Algeria, conflitto che impegnò sul fronte per otto lunghi anni numerosi soldati delle due fazioni.
L’Algeria, a differenza degli altri possedimenti dell’Esagono, godeva di un ruolo privilegiato, divenendo un vero e proprio prolungamento della metropoli. Le altre colonie, invece, erano dei protettorati – delle terre da sfruttare governate da amministratori e prefetti – che non vivevano alcun coinvolgimento da parte degli abitanti francesi, con i quali instauravano soltanto contratti economici. L’Algeria, al contrario, si prestava ad essere un territorio florido (ovviamente per quello che concerneva la zona costiera, a differenza del resto del paese totalmente desertico) e una nuova casa per i coloni europei, i quali diventarono rapidamente cittadini effettivi algerini, surclassando gli abitanti autoctoni.
Gli “indigeni” – così vennero chiamati quest’ultimi – furono progressivamente relegati nelle Casbah, costretti a perdere le loro terre e, di conseguenza, la loro unica fonte di sopravvivenza. La loro identità e la loro cultura persero terreno, lasciando spazio ai costumi e alle usanze europei.
Lo stesso velo, utilizzato dalle donne, divenne il simbolo di questa battaglia, nonché il solo legame identitario che permettesse di ricondurre il popolo alle sue origini arabe. La guerra ha inizio proprio da questo sentimento di riconoscimento, infiammato ulteriormente dai soprusi dei nuovi coloni e dai soldati francesi, ma in particolar modo dalla speranza di una ribellione come gli stessi vietnamiti, pochi anni prima, ebbero modo di espletare con la disastrosa disfatta di Diên Biên Phu: la Francia da allora non apparve più così indistruttibile.
Le donne ebbero un ruolo fondamentale in questa lotta, giacché veicoli di esplosivi e spesso operatrici di attentati nelle varie zone della città. Personaggi in incognito e spesso costrette ad usare tutti i mezzi a loro disposizione, esse riuscivano a non destare sospetti nelle guardie e a trasportare armi e messaggi – nascosti nelle loro borse – dalla Casbah sino al centro di Algeri.
Il regista italiano Gillo Pontecorvo, nel suo celebre film La battaglia di Algeri (1966), ha mostrato magistralmente l’operato di queste eroine, capaci di fare l’impossibile e di affrontare in pieno volto il pericolo per una causa maggiore. È anche di fondamentale importanza, però, considerare l’altra faccia della medaglia: le donne erano sì coloro che potevano liberamente circolare tra Casbah e città trasportando in incognito armi, ma erano anche le carnefici di attentati di massa, causa di morte per centinaia di civili innocenti e ignari delle stesse crudeltà che gli algerini stavano vivendo.
Il conflitto in Algeria è una rivoluzione che per molto tempo non ha trovato il suo giusto nome, giacché negata sin dai suoi albori dai francesi.
Quest’ultimi, infatti, celavano, attraverso la facciata di un semplice tentativo di sedare gli animi astiosi degli algerini, realtà ben più subdole e crudeli: atti di tortura, violenze psicologiche e sessuali, soprusi e vessazioni. I soggetti più deboli cedettero immancabilmente durante questi interrogatori, senza contare le numerose donne che vennero violentate dai soldati francesi, divenendo delle schiave sessuali nei campi di prigionia dove venivano recluse.
Gisèle Halimi, avvocata franco-tunisina, nonché militante per i diritti delle donne, affermò che la maggior parte delle donne da lei interrogate avevano subìto stupri di massa tali da indurle a voler nascondere la verità.
Anche la storica francese Raphaëlle Branche parlò delle infamità vissute dalle donne algerine, in particolar modo dei due diversi tipi di stupro: quello usato come atto di tortura per ottenere informazioni dai prigionieri e quello praticato nel corso delle operazioni militari nelle campagne, dove le donne venivano violentate senza alcun motivo. La violenza carnale, sostiene lei, a volte era di gruppo, altre volte veniva realizzata «con oggetti di vario tipo».
La sua tesi degli anni 2000 divenne una delle prime prese di posizione sulla questione algerina e sulla tortura, che venne ampiamente praticata in quegli anni e da sempre tenuta nascosta.
Al termine del conflitto migliaia di franco-algerini, i cosiddetti pieds-noirs, si trovarono quasi costretti a ritornare nella madrepatria e ancora oggi vivono nell’indifferenza e nell’isolamento da parte dei francesi. A poco a poco trovano il coraggio di parlare, di raccontare le loro storie fatte di morte e di coraggio, ma c’è ancora molto da conoscere e molto da dissotterrare in questa nube di bugie e dimenticanza.
FONTI
Novati G., Storia dell’Algeria indipendente. Dalla guerra di liberazione al fondamentalismo islamico, Bompiani, Milano 1998.
Souaïdia H., La sporca guerra. La verità di un ex-ufficiale sul coinvolgimento di esercito e governo nelle stragi in Algeria, Berti, Piacenza 2002.
Stora B., La guerra d’Algeria, Il Mulino, Bologna 2009.
FILMOGRAFIA
Pontecorvo G., La battaglia di Algeri, 1966.
SITOGRAFIA
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