Tutta la nostra vita sembra ormai essere caratterizzata in maniera produttiva. Anche noi dobbiamo ragionare di noi stessə come prodotti da presentare sul mercato. Eppure, la teoria della riproduzione sociale (o SRT, acronimo di Social Reproduction Theory) ci spiega che la produzione è sempre accompagnata dalla riproduzione, e che anzi quest’ultima è determinante affinché la prima possa anche solo esistere.
Per riproduzione sociale, infatti, si intendono tutte quelle attività, anche chiamate attività di cura, che hanno il fine di riprodurre l’umanità. Ciò non allude solo alla generazione di creature umane, ma anche alla loro quotidiana rigenerazione, affinché possano essere funzionanti. Banalmente, non è possibile compiere alcuna attività senza essersi appropriatamente nutritə. Nutrirsi o essere nutritə da qualcuno è, allora, un atto di riproduzione sociale. Ma questa categoria è ancora più estesa di quello che possiamo pensare a un primo sguardo, perché coinvolge anche la riproduzione dell’ecosistema, delle altre creature viventi, insomma dell’intera società così come la conosciamo.
La SRT, dunque, vuole rimettere al centro la categoria della riproduzione, piuttosto che quella della produzione, innanzitutto per la centralità che essa ha fattivamente.
La produzione, d’altronde, avviene solo grazie alla presenza di individui, che per lavorare sono stati riprodotti fisicamente tramite la cura di altrə. Ma ribadire il ruolo fondamentale del lavoro di cura nel sistema in cui viviamo ha anche un effetto immediatamente politico, perché posiziona al cuore dell’esistenza umana il lavoro dei soggetti marginalizzati. Questi vengono bollati, nel discorso comune, come le ultime ruote del carro di una società che si muoverebbe bene anche senza di loro, e che anzi se ne fa carico. Eppure, sono proprio tali soggetti a svolgere l’imprescindibile compito della riproduzione così intesa, dato che sono stati relegati dal capitalismo a questa attività, che è stata naturalizzata come propria, ad esempio, delle donne o degli individui razzializzati.
L’intersezionalità, la sovrapposizione dei diversi assi di oppressione e dunque delle lotte dei soggetti che li subiscono, è di conseguenza la pietra angolare della SRT, che però la declina in una maniera particolare.
Infatti, generalmente le varie oppressioni, quali quella di genere o di razza, vengono individuate come realtà sociali separate, e le rivendicazioni di chi le soffre come lotte che individuano degli interessi comuni e volontaristicamente si uniscono. Per la SRT, invece, le cose starebbero in modo differente. Infatti, le oppressioni che conosciamo attualmente, nella forma storica che hanno ora, appartengono essenzialmente a un unico genere: il dominio capitalista, che si declina sotto più forme. Questo non significa che l’oppressione economica sia gerarchicamente superiore alle altre; anzi, l’obiettivo di questa teoria è proprio quello di dimostrare che il giogo del capitalismo non equivale al giogo economico, come ci hanno da sempre spiegato, ma anche a tutti gli altri che ben conosciamo. Essi sono intrinseci al capitalismo non necessariamente perché questo sistema li abbia creati, bensì perché si fonda su di essi, e dunque è sistematicamente razzista, sessista, eccetera, e di conseguenza una vera pratica femminista intersezionale non può che essere anticapitalista.
Il femminismo che così ne risulta deve, allora, mettere al centro la riproduzione, perché finalmente dà voce ai soggetti marginalizzati e al loro lavoro di riproduzione, che attualmente:
- O non viene ritenuto un vero e proprio lavoro, come nel caso del lavoro domestico che le donne si sobbarcano ogni giorno.
- O viene categorizzato come un lavoro di “serie B”, non degno di nota, tant’è vero che viene affidato a coloro che sono ritenutə ultimə, come i soggetti razzializzati immigrati.
Seguire la SRT nelle sue elaborazioni, o per lo meno prenderne spunto in modo da riportare la riproduzione sociale al centro dell’attenzione, dovrebbe essere imperante e per la pratica e per la teoria femminista attuale. Non solo perché storicamente siamo statə costrettə a riprodurre il mondo e la società, ma anche perché forse vedere il mondo nell’ottica della riproduzione, piuttosto che in quella della produzione, potrebbe servire a riposizionarci nell’esistente.
Fonti:
A cura di T. Bhattacharya, Social Reproduction Theory. Remapping class, Recentering oppression, Pluto Press, Londra, 2017.
A. Jaffe, Social Reproduction Theory and the Socialist Horizon Work, Power and Political Strategy, Pluto Press, Londra, 2020.
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