Se l’indipendenza economica è sempre stata considerata la condizione necessaria per l’auto-emancipazione femminile a cui fa riferimento l’ampia nozione di empowerment, la storia dello sviluppo del capitalismo fino ai giorni nostri mostra che essa è assolutamente insufficiente: benché il lavoro femminile ricopra un ruolo fondamentale nel settore produttivo, la situazione di dipendenza delle donne fuori e dentro le mura domestiche è rimasta per alcuni versi invariata rispetto al passato. Certamente, le donne oggi hanno più spazio nella partecipazione attiva alla vita politica ed economica, acquisito grazie allo svolgimento di un’attività remunerata che ne ha garantito una maggiore indipendenza in rapporto agli uomini, ma la loro stretta subordinazione al sistema capitalistico continua a determinarne lo sfruttamento sotto forme nuove e diverse.
Bisogna partire dalla considerazione del capitalismo come sistema produttore tanto di relazioni sociali quanto di relazioni economiche per comprendere la corrente del femminismo che elabora la teoria della riproduzione sociale.
Esso assume un punto di vista inedito rispetto alle lotte precedenti: si dedica ad ampliare le coordinate del pensiero marxista relativamente alla definizione di lavoro. Il problema su cui si vuole mettere l’accento riguarda l’invisibilità forzata che un sistema economico mosso dal desiderio delirante di profitto pone a tutta una serie di attività di cui paradossalmente questo non può fare a meno per garantirsi l’esistenza. Il concetto di “riproduzione sociale” rinvia per definizione alle attività, remunerate o no, facenti parte del «dominio di rigenerazione e del mantenimento della forza lavoro e della classe operaia nel suo insieme e delle istituzioni e del lavoro a queste necessari (1)», quindi al lavoro necessario per «la riproduzione biologica, la riproduzione quotidiana e la riproduzione delle nuove generazioni attraverso la loro socializzazione (2)».
Nonostante questo tipo di lavoro sia sempre stato associato al sesso femminile e in particolare alla sfera privata delle mura domestiche, in cui la cellula familiare assume un ruolo di primo piano nella procreazione, l’educazione dei bambini, le attività domestiche e il lavoro affettivo ed emotivo che lega i membri della famiglia tra di loro, è necessario sottolineare che nessuno di questi «elementi è antistorico, né determinato dal singolo individuo, ma che sono organizzati dal capitalismo per prendere delle forme particolari nella società (3)».
Come sottolinea Silvia Federici, il lavoro di riproduzione non corrisponde alla libera produzione di individui secondo i loro desideri e le loro scelte, ma al contrario è sottoposto alla logica capitalista di produzione, che sulla base di un valore monetario ne determina la svalorizzazione e la subordinazione sistematica alla sfera del lavoro produttivo.
In altri termini, nel caso delle donne, esse devono riprodurre e curare gratuitamente individui che siano futura manodopera salariata.
La marginalizzazione delle donne in seno al capitalismo etero-patriarcale non è quindi un elemento arbitrario, ma ci permette di affermare che un capitalismo senza oppressione di genere non è mai esistito e non esisterà mai: essendo la riproduzione organizzata sulla base del modo di produzione e di accumulazione capitalista, la disuguaglianza tra i sessi, e in particolare l’oppressione del cosiddetto “sesso debole”, si pone come l’effetto visibile della devalorizzazione della donna rispetto al lavoro produttivo, e creatore di valore di scambio, associato storicamente agli uomini.
Se i presupposti teorici della teoria della riproduzione sociale sono globalmente condivisi dalle numerose ricercatrici che la sostengono, nel tempo si sono susseguite diverse declinazioni di pensiero, che propongono sfumature più o meno marcate del concetto di lavoro di riproduzione, arrivando a una definizione sempre più inclusiva. Dal movimento femminista sviluppatosi negli anni Sessanta e Settanta grazie alle pubblicazioni di Selma James, Silvia Federici e Mariarosa Della Costa – fondatrici oltretutto della campagna Wages for Housework – fino alle coniugazioni attuali, riunite attorno al manifesto Feminism for the 99 % di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, la sfida è rimasta quella di determinare strategie di azione concrete per portare avanti una battaglia teorica inscindibile dalle sue implicazioni pratiche.
Contro le politiche di austerity che continuano ad effettuare tagli sempre più drastici al welfare e una crescente etnicizzazione del lavoro determinata dalle politiche migratorie, che si aggiunge alla tradizionale divisione sessuale, è oggi più che mai necessario trovare dei terreni di lotta comune per opporsi alla nuova ondata capitalista di appropriazione delle ricchezze create dalle lavoratrici del settore della cura.
A tal proposito Federici evidenzia l’importanza e l’efficacia delle lotte sul terreno della riproduzione, in cui risulta fondamentale mettere in campo una progressiva collettivizzazione in quanto «meccanismo primario attraverso il quale si creano un interesse collettivo e legami reciproci (4)»: si tratta della «prima linea di resistenza a una vita di schiavitù e condizione per la costruzione di spazi autonomi che compromettano dall’interno la presa che il capitalismo ha sulle nostre vite (5)». E il ruolo delle donne risulta in questo senso più importante che mai per lo scioglimento delle catene millenarie che le rinchiudono nello spazio angusto delle mura domestiche o che le costringono a una doppia giornata lavorativa una volta terminate le ore sul luogo di lavoro propriamente detto:
«Sono le donne, non per ragioni biologiche ma per ragioni radicate nell’organizzazione della riproduzione, che oggi stanno “comunizzando” il lavoro riproduttivo, sia per ridurre il costo della riproduzione, sia per avere più forza nei confronti dello stato, delle autorità locali, degli uomini. Non c’è comune se non c’è prima cooperazione. Per questo noi parliamo sempre di commoning. Bisogna partire dal verbo non dalla cosa. È la cooperazione che precede un bene o la riappropriazione di un bene. E ogni processo di riappropriazione avviene solo se c’è un grosso livello di lotta e cooperazione a monte. (6)»
(1) Cinzia Arruzza, Le féminisme de la reproduction sociale et ses critiques, in Actuel Marx, vol. 70, no. 2, 2021, p.30, traduzione mia.
(2) Ibidem.
(3) Intervista a Tithi Bhattacharya, La source de vie du capitalisme : la base domestique et sociale de l’exploitation, Contretemps, 2017, traduzione mia. Qui il link: https://www.contretemps.eu/capitalisme-reproduction-sociale/
(4) S. Federici, Feminism And the Politics of the Commons, AK Press, Oaskland, 2010, traduzione mia.
(5) Ibidem.
(6) Il comune della rivoluzione: intervista a Silvia Federici.
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