È dal 16 settembre 2022, giorno dell’uccisione della ventiduenne Mahsa Amini, che l’intero territorio iraniano è attraversato dalle proteste di un popolo sempre più insofferente a un regime repressivo e liberticida che dura da più di quarant’anni. Sicuramente l’aspetto del tutto inedito delle manifestazioni è dovuto alla massiccia presenza di studentesse, e in generale di donne, che stanno mettendo in pericolo la loro vita per opporsi a uno stato che calpesta i loro diritti in modo sempre più violento.
La questione del velo è diventata centrale nella lotta per l’abolizione della polizia della morale, ma per aver chiaro il quadro in cui si inserisce la rivolta bisogna sondarne la natura.
Il soggetto rivoluzionario si identifica nella figura della donna perché è sul suo corpo martoriato e violentato dallo Stato che confluiscono tutta la rabbia e la disperazione che il paese ha accumulato negli ultimi decenni, segnati da una forte debolezza economica che ha portato un numero sempre più crescente di persone a vivere in condizioni di povertà estrema. Se le motivazioni che si celano dietro la rivendicazione dei propri diritti affondano le loro radici nella profondità delle dinamiche sociali ed economiche, è chiaro che l’abolizione dell’obbligo di indossare il velo non potrà porsi come soglia di arresto delle proteste, ma che solo un cambiamento radicale di regime – né la teocrazia né la monarchia – potrà saziare la sete rivoluzionaria che anima i giovani in rivolta.
Già in passato lo svelamento di massa fu preso come punto di partenza simbolico di una serie di campagne volte all’acquisizione dei pari diritti nel quadro di conversione politica dei paesi medio-orientali: ricordiamo le politiche che presero piede dal 1927 su decisione del Partito Comunista in URSS, a cui si fa riferimento con il nome di Hujum, per promuovere il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, condizione necessaria all’espansione del socialismo nelle regioni dell’Asia Centrale.
Se il carattere di imposizione dall’alto di queste politiche ne attesta dei punti di raccordo con il regime opposto, posizionandole quindi ai margini di una possibile e pericolosa deriva dittatoriale, i presupposti teorici delineati dalla diplomatica sovietica Alexandra Kollontaï – in un testo (1) pubblicato in occasione di un congresso preparatorio alla campagna di emancipazione delle donne musulmane – sembrano cogliere perfettamente il cuore della questione che interessa le stesse popolazioni ancora a un secolo di distanza.
Invitando le donne dell’Asia centrale a recarsi a Mosca per liberarsi del proprio velo attraverso un atto teatrale, Kollontaï individua nella figura della donna orientale «la più oppressa tra le oppresse (2)», la chiave di volta del movimento rivoluzionario che porterà all’affermazione di un nuovo stato di uguali che segni il colpo fatale dell’imperialismo occidentale.
Nonostante lo scenario politico ed economico sia stato stravolto nel corso dell’ultimo secolo, il rogo dei veli continua tuttora a bruciare sotto il grido “Donna, vita, libertà”, alimentato dalla speranza globale che l’incendio possa finalmente spegnersi grazie al coraggio delle centinaia di giovani donne che, schiacciate dal peso di una sofferenza divenuta insopportabile, si battono in prima linea contro un regime petrolifero e teocratico che regna da troppo tempo nel loro paese.
(1) A. Kollontaï, La dernière esclave, “Bulletin communiste” n°11 (deuxième année), 17 marzo 1921.
(2) Ibidem.
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