Chi era davvero Gurdjieff? Un filosofo, un mistico, un imbroglione, un cialtrone, un santo?
Fin dalla sua comparsa nel panorama spirituale del suo tempo, ammirazione e sospetto, adorazione e maldicenze si alternano e si mescolano, contribuendo a creare uno dei ritratti più controversi e contraddittori della spiritualità del Novecento.
Georges Ivanovič Gurdjieff nacque tra il 1866 e il 1877 ad Alexandropol, una provincia turca conquistata dalla Russia zarista, vicino alla frontiera persiana, dove la mescolanza dei popoli russi, iraniani, greci, tartari e armeni creò un vastissimo intreccio di credenze e di pratiche tradizionali di ogni tipo.
In molti hanno cercato di inserirlo in qualche categoria senza però riuscirci: autore di libri senza essere scrittore, di musiche senza essere musicista, cuoco raffinato, tantrista e molto altro, sostenne durante i suoi insegnamenti che per poter fare bisogna prima essere, e per poter essere bisogna prima aver preso coscienza della propria fondamentale inesistenza.
Da qui la necessità di costruirsi un centro di gravità, attraverso il Lavoro, chiamato anche “Quarta Via” (1). La via di Gurdjieff è una via religiosa nel senso più etimologico del termine: re-ligare, cioè riconnettersi, ricollegarsi.
Secondo Gurdjieff l’uomo vive imprigionato in una specie di sonno in cui utilizza solo una piccola parte delle sue potenzialità, in una condizione di esistenza irreale che provoca in lui una situazione di disequilibrio e separazione, reagendo meccanicamente agli stimoli esterni e interni senza avere alcun controllo su di essi. L’uomo è un essere tricentrico, in cui corpo, emozioni e intelletto devono funzionare in modo armonico e non sbilanciato come abitualmente accade. Non bisogna quindi sacrificare o mortificare nessuna di queste tre parti, ma bilanciarle tra di loro.
Lo scopo primario della Quarta Via è proprio questo, il raggiungimento di uno stato di equilibrio dei tre centri, il cui manifestarsi nella vita quotidiana risveglia l’uomo ad uno stato di coscienza che gli permette finalmente di percepire se stesso nella Vera Realtà.
Secondo Gurdjieff questo stato di presenza può essere creato e indotto tramite le Danze Sacre, che hanno vari scopi, tra i quali quello di far lavorare in equilibrio i due emisferi del cervello tramite i movimenti asincroni tra parte destra e parte sinistra del corpo. Un altro scopo è quello di creare una meditazione in movimento, quindi creare una situazione di vuoto interiore che permette di sentirsi più presenti in quell’istante, permettendo di sperimentare emozioni non ordinarie e meccaniche.
In questo modo tutti e tre i centri riescono a nutrirsi di energia propria, muovendosi in sincronia.
Carismatico, misterioso, abile ipnotista e genio della seduzione dialettica, Gurdjieff ha sempre rappresentato un enigma sotto vari aspetti: per prima cosa, esaminando i numerosi libri scritti su di lui, non si trovano due descrizioni che coincidano, grazie alla sua abile capacità di nascondersi, di mostrarsi diverso da quello che era realmente, per confondere le idee degli altri.
Un altro mistero riguarda le fonti degli insegnamenti e dei metodi da lui trasmessi: non rivelò mai, infatti, dove imparò le cose che sapeva. Ci sono prove del fatto che abbia attinto molto dalla tradizione occulta occidentale, dai Platonici, dai Rosacroce, ma nella sua filosofia ci sono anche degli elementi sconosciuti che non si riescono a ricondurre ad alcuna tradizione di pensiero (2).
C’è poi un’altra caratteristica di Gurdjieff molto peculiare, ovvero la scelta volontaria di camuffarsi mettendosi in cattiva luce, indossando una maschera di falsità, di ipocrisia, di insensibilità, umiliando e plagiando i suoi allievi tramite violenze psicologiche, o attraverso comportamenti discutibili come l’assunzione di grandi quantitativi di oppiacei.
Tutti atteggiamenti che avevano l’effetto di allontanare le persone da lui, piuttosto che attrarle.
Scrive a riguardo Fritz Peters: «Per via della sua reputazione le persone raramente venivano in contatto con un individuo chiamato Gurdjieff; esse incontravano, piuttosto, l’immagine che si erano precedentemente create nella loro mente» (3).
Questo approccio è chiamato dai sufi, i mistici islamici, “la Via di Malamat”, cioè la via del biasimo: gli individui che percorrevano questa strada si presentavano al mondo esterno nei loro atteggiamenti peggiori, in parte per evitare di attrarre su di sé elogi e ammirazione, e, in parte, come forma di protezione personale. Ma c’è anche un’altra ragione particolare per seguire la Via di Malamat, legata a un concetto zoroastriano secondo cui esisterebbe un determinato potere denominato “Khvarenah”: chiunque ne fosse dotato possedeva un potere di attrazione sugli altri, aveva un “tocco regale” (4).
Il potere di attrarre gli altri è una tentazione talmente potente che pochi vi resistono e Gurdjieff si rese conto sin da piccolo di possedere tale potere.
In molti hanno criticato e giudicato il suo comportamento, adottato da lui di proposito per evitare il pericolo di attrarre verso di sé quell’errato culto dell’eroe che sconfina nell’idolatria, ma anche per scopi più alti e superiori: la creazione di quel mondo invisibile decondizionato dai vincoli del mondo materiale.
La sua speranza era che si potessero creare sulla terra dei circoli di un nuovo genere, luoghi di incontro tra persone di ogni tipo per poter condividere esperienze e opinioni, in modo da diffondere la comprensione dei problemi della vita umana, dove «coloro che sono spiritualmente forti possano aiutare coloro che sono spiritualmente deboli, non solo attraverso le azioni esteriori, ma dando loro in prestito una certa quantità di “sostanza operante”, qualcosa di analogo alla sostanza prodotta dall’ape regina, che rende possibile l’attività della api operaie» (6).
(1) È importante sottolineare che Gurdjieff non usa mai questo termine per riferirsi ai suoi insegnamenti, ma che è un’espressione creata da uno dei suoi allievi più famosi, P. D. Ouspensky.
(2) John G. Bennet, L’enigma Gurdjieff, Ubaldini Editore, Roma, 2019, p.8.
(3) Fritz Peters, La mia fanciullezza con Gurdjieff, SE Edizioni, Milano, 1992, p.33.
(4) John G. Bennet, op. cit., p.65.
(5) Ivi, p.86.
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