Quando il “dopo” è un’altra storia. La PAS e la POST PMA

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Dagli anni ‘60 ad oggi si sono messi in moto dei meccanismi che hanno cambiato il modo di approcciarsi alla vita, alla morte e al concepimento della vita stessa; si sono raggiunti diritti inimmaginabili come quello di decidere del proprio corpo, di autodeterminarsi e di scegliere se mettere al mondo una vita o no.


Donne hanno lottato per abbattere il preconcetto “donna = madre, partoriente, casalinga”:

esse hanno compreso che possono fare molto di più e che non ci si deve sentire meno donne non volendo figli. Al contrario le cosiddette “sterili, non donne” grazie alla procreazione medicalmente assistita, hanno avuto la possibilità di dar voce al loro sentimento di maternità sedato dalla natura.

Oggi però l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) e la PMA (procreazione medicalmente assistita) celano, dietro la luce della libertà personale, problematiche di enorme entità che manifestano un senso di indifferenza della società e del mondo medico, soprattutto in Italia.


Tali problematiche hanno un nome: PAS (sindrome post aborto volontario) e POST PMA (sindrome post procreazione medicalmente assistita).


Queste due patologie affliggono da anni donne di tutte le età e vengono nascoste ai più, nel nostro Paese.
Nel resto d’Europa e negli USA, invece, queste hanno avuto risonanza e attenti studi da parte di specialisti del campo medico, filosofico, psichiatrico:

è stato compreso che le donne tra i 20 e i 40 anni, nel 30-40% dei casi, si suicidano, fanno uso di sostanze stupefacenti o abusano di minori perché hanno alle spalle uno o più aborti volontari, causati da una situazione economica difficile, da un compagno violento, da un mancato senso di maternità che la società impone loro;

che le donne tra i 30 e i 45 anni, nel 30-50% dei casi, soffrono di depressione o problemi mentali, muoiono di tumore alle ovaie o al seno, si suicidano perché si sono sottoposte ad un numero imprecisato di tentativi di fecondazione artificiale, tutti falliti.

In Italia purtroppo questa attenzione anche solo nei confronti dello studio del problema viene a mancare e sono pochissime le voci che riconoscono l’esistenza di queste due patologie.


Secondo queste realtà, le donne si vergognano di parlare del loro problema e i troppi medici obiettori di coscienza non garantiscono l’esercizio dell’autodeterminazione e la messa in pratica di quello che è previsto dalla legge:

infatti sia per l’aborto sia per la fecondazione assistita si richiede un supporto psicologico e umano prima e dopo il verificarsi di questi procedimenti poiché le donne potrebbero incorrere in problematiche, a lungo termine, irrecuperabili.

È necessario dare ascolto a chi sta vedendo proliferare queste patologie ed è necessario creare un senso di solidarietà tra donne per dare sostegno a coloro che si sentono sole e vivono col costante senso di colpa o di frustrazione.


La libertà è un valore importante e chi lo attua deve sentirsi tutelato in toto, altrimenti non si parla più di diritto ad autodeterminarsi, ma di diritto a distruggersi.


Ogni donna ha il diritto di concludere un aborto sapendo che verrà guidata lungo il percorso e di soddisfare il proprio senso materno tramite la fecondazione assistita sapendo che sarà accompagnata passo passo e che verrà indirizzata verso altre soluzioni, come l’adozione, in caso di problematiche.

Chiedere aiuto è segno di forza e coraggio, e non di fragilità.

Alla fine c’è sempre la quiete dopo la tempesta.