Quanti scatti si possono fare di uno stesso fiore nell’arco di un minuto? Quante immagini possiamo cancellare e rifare per immortalare al meglio sul nostro smartphone, o fotocamera, il sorriso più accattivante, la posa senza pancia o la giusta combinazione di elemento umano e paesaggio vacanziero?
La risposta è: fino all’ultimo gigabyte.
Fino a che lo spazio sulle nostre memorie esterne non si sarà esaurito, potremmo continuare a fotografare e cancellare la stessa immagine più e più volte.
La scelta finale alla fine ricadrà generalmente su quella che noi (o il pubblico virtuale?) riterremo migliore.
Ma se, assurdamente, per un momento decidessimo di mettere da parte le memorie esterne, le batterie ricaricabili e lo schermo luminoso dal quale “scrollare” tutti i nostri scatti, e ci ritrovassimo con in mano una macchina fotografica analogica, senza esposimetro e con al massimo trentasei scatti utilizzabili, come ci comporteremmo?
In sostanza, cosa contraddistingue nel 2019 la fotografia analogica rispetto alla digitale?
Lo scatto su pellicola è uno e uno soltanto e, cosa più importante, si mostra nel tempo: quello dello sviluppo. Potrebbero passare giorni, settimane o mesi, prima di poterlo vedere. Non si ha un display sul quale sfogliare senza sosta i mille scatti di un solo fiore: se non vogliamo “sprecare” lo scatto, siamo tenuti a pensarlo.
La fotografia analogica offre quindi la possibilità di uno spazio di riflessione, una pausa tra lo sguardo verso l’oggetto e il gesto meccanico che permetterà alla luce di imprimerlo su pellicola.
Un altro punto importante è che non si ha modo di verificare un errore nell’immediato, ma ci si deve affidare all’attesa dello sviluppo e all’esperienza che si può trarre da una foto sovraesposta, mossa oppure completamente nera.
La fotografia analogica detiene il potere di condurre a una valutazione istintiva ed emozionale dei momenti che desideriamo immortalare.
La possibilità di scatto limitata, l’ipotesi dell’errore, la paura dello spreco sono tutti elementi che inducono a scegliere con cura i soggetti di una foto, ma anche le modalità e i tempi.
In sostanza: scegliere i momenti.
Essi richiedono un respiro ulteriore, uno sguardo più approfondito e un calcolo più marcato.
Scrive Roland Barthes nel suo famoso saggio La camera chiara, che la fotografia «crea l’inconcepibile confusione tra realtà («Ciò è stato») e verità («È esattamente questo!») […] Un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo» (1), si tratta del ponte paradossale che si crea tra il passato, quindi ciò che è stato e non tornerà, e la realtà di ciò che vedo, l’essenza che traggo dall’immagine.
Nello stesso saggio delinea una distinzione importante nell’atto del guardare una fotografia da parte dello Spectator (colui che osserva la foto) che di fatto si anima alla vista di determinati scatti.
Uno Spectator può essere animato dallo studium di una fotografia, cioè l’osservazione, un vero e proprio studio delle immagini che gli vengono poste davanti: un interessamento intellettuale al quale manca la dose di emozione che contraddistingue invece il punctum, il secondo modo in cui una fotografia può animare chi la osserva.
Al contrario dello studium razionale, che tenta di entrare nell’ottica dell’Operator (colui che ha scattato la foto) e viene ricercato ad esempio nella composizione, nei soggetti ritratti o nella scelta dei colori, il punctum è qualcosa che “punge”, che giunge senza essere ricercato: «partendo da una scena, come una freccia mi trafigge» (2). È ciò che propriamente mi colpisce, emoziona e, perché no? Ferisce.
Nell’era della velocità fotografica in cui ci troviamo, forse il punctum si è leggermente smarrito, o per lo meno è più difficile che ci arrivi. Questo perché si è bersagliati con una rapidità disarmante da centinaia di immagini in contemporanea: cibo, gattini, paesaggi mozzafiato. Difficile andare oltre allo studium di una fotografia, forse proprio perché all’Operator stesso manca la giusta dose di animazione nel produrre uno scatto. Forse un ritorno alle tempistiche decisamente più moderate della fotografia analogica ci permetterebbe di godere più spesso di quel punctum, sia come Operator, che come Spectator.
Al contrario di uno scatto ripetuto più volte, cancellato e rifatto, nell’arco di manciate di minuti, una riflessione aggiuntiva su ciò che vogliamo immortalare e sul come intendiamo farlo può riportare la fotografia a essere quel ponte paradossale che Barthes pone tra passato e realtà.
(1) R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Giulio Einaudi editore, Torino, pp. 112-115.(28) Ivi. P. 28.
(2) Ivi. P. 28.
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