
Simone Weil, filosofa e pensatrice del Novecento, rappresenta un modello di esistenza radicale che esula dagli schemi conformisti e stereotipati imposti dalla società moderna (biografia qui).
La sua riflessione filosofica si sottrae alla logica sistematica e dimostrativa del pensiero occidentale e si delinea lungo un percorso volto a cogliere la realtà nella sua dimensione frammentata e contraddittoria, nel continuo flusso del divenire.
Nella fase finale del suo impegnato percorso politico e filosofico, pone in evidenza l’urgenza di sostituire la forza come fondamento dei rapporti sociali e politici e di trasformare il modo in cui lə individuə si relazionano con sé stessə e con la realtà circostante.
La forza, nel pensiero weiliano, non è semplicemente l’esercizio del dominio, ma una logica impersonale e disumanizzante che trasforma l’umanità in cose: strumenti, pedine, oggetti.
Essa rappresenta, per la filosofa, un elemento costante nella natura umana che si esprime attraverso la violenza più brutale e feroce, attraverso una schiavitù insidiosa e subdola. Si manifesta nei campi di battaglia, nelle fabbriche tra le fila dellə operaə, nei vertici dei grandi partiti di massa e persino nella sacra istituzione della Chiesa cattolica.
Per Weil, comprendere la forza significa anche interrogarsi sulle condizioni della giustizia, sulla possibilità di una relazione autentica tra lə esserə umanə, fondata non sul dominio ma sull’attenzione e sulla responsabilità.
Nell’articolo Iliade o il poema della forza (1941), Weil si dedica al tema della forza nella sua manifestazione più brutale e feroce: la violenza del conflitto.
In guerra «chi possiede la forza procede in ambiente privo di resistenze, senza che nulla, nella materia umana che lo circonda, possa suscitare tra l’impulso e l’atto, quel breve intervallo in cui abita il pensiero» (1). La persona, travolta dalla cieca tempesta della forza, viene privata della sua facoltà di pensare e, quindi, di resistere.
Dell’essere umanə non rimane che materia inerme e priva di anima: così si muore quando si è ancora in vita.
«La violenza schiaccia chi tocca e alla fine appare estranea a chi la usa e chi la subisce. Nasce allora l’idea di un destino per il quale i carnefici sono altrettanto innocenti vittime, i vincitori e i vinti si ritrovano fratelli nella loro stessa miseria» (2).
Così Weil mostra come la violenza della guerra renda cadaverə sia coloro che la esercitano sia coloro che la subiscono in un morboso gioco pendolare in cui non ci sono né vintə né vincitorə perché nessunə è veramente in grado di possederne il controllo.
La stessa forza che agisce nei campi di battaglia sotto forma di pura violenza, sul piano politico e sociale, si esprime attraverso l’oppressione sociale. In Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934) Weil analizza i meccanismi coercitivi e alienanti che determinano la natura oppressiva del regime di produzione che lei stessa ha potuto esperire nelle fabbriche metallurgiche parigine. Condizioni essenziali di questo sistema sono il privilegio, causa diretta della diseguaglianza, e la lotta infinita e senza misura per il potere che, da mezzo per una vita degna di essere vissuta, ne diventa il fine.
Nell’immaginario weiliano la forza e il potere annientano e disumanizzano non solo attraverso la violenza, la guerra e l’oppressione ma anche attraverso lo sradicamento che assume la forma di una totale alienazione. L’individuə sradicato perde il contatto con le sue radici storiche e culturali, viene privatə del suo legame con la comunità e della capacità di relazionarsi con l’altrə.
«Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte […], o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora o coloro che lo sono solo in parte» (3).
Così, come la forza riproduce sé stessa attraverso lə individuə, allo stesso modo, coloro che sono sradicatə non possono fare altro che condurre alla stessa sorte altre persone. Weil riporta in La prima radice (1949) alcuni esempi di popolazioni erranti senza radici che hanno sradicato a loro volta altre comunità ponendole sotto il proprio dominio. I romani, «manipolo di fuggiaschi» (4), hanno sterminato e conquistato intere popolazioni privandole del legame con la loro storia e con la loro cultura e hanno fondato nel corso dei secoli il più grande impero della storia.
Allo stesso modo il popolo ebraico, esule senza patria, ha massacrato e ridotto in schiavitù i popoli della Palestina condannandoli a un destino di abusi e violenze.
Un altro fattore di sradicamento è, per Weil, il potere del denaro.
La forza della moneta altera il rapporto tra l’individuə e il suo desiderio, pervade i suoi sogni e sostituisce qualsiasi altra motivazione ad agire. Lo sradicamento raggiunge l’apice della brutalità nella condizione operaia, in cui il lavoro si trasforma in schiavitù e in cui lə esserə umanə, alienatə dai ritmi e dagli ordini, perdono la loro umanità. Dalla sua esperienza nelle officine, infatti, la filosofa ha potuto comprendere che l’oppressione non dà origine a una tendenza alla rivolta: al contrario, porta a una totale sottomissione. Si comincia a credere di essere al mondo solo per ricevere ordini ed eseguirli e, soprattutto, di non contare nulla per sé stessə e per il resto della società.
«Cittadino d’una grande città, operaio d’una grande fabbrica, eri solo, impotente, senz’aiuto, come un uomo solo nel deserto, abbandonato alle forze della natura. […] Eri più una cosa che un uomo nella vita sociale. E talvolta, quando era troppo dura da sopportare, tu stesso arrivavi a dimenticarti di essere un uomo» (5).
Così lə operaiə, anime perse e sradicate, si sentono estraneə tra di loro nella fabbrica e nella società intera. I rapporti che instaurano non sono umani, ma relazioni tra cose: per ə padronə si diventa macchine e per ə compagnə, sfinitə dalla loro stesso disperazione, pezzi della catena di montaggio.
Nella sua lotta contro la forza, Simone Weil ci lascia un interrogativo ancora attuale: è possibile costruire una società in cui il potere non si traduca in dominio e violenza? La sua filosofia ci sfida a non smettere di cercare risposte, nella tensione continua tra giustizia e oppressione.
Note
- S. Weil, Iliade o il poema della forza, Asterios, Trieste, 2012, p. 55;
- Ivi, p. 62;
- S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, p. 52;
- Ibidem;
- Ivi, p. 210.
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