Il corpo della musica. Perché non ci ascoltiamo più?

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Un giorno, parlando con D., mi ha rivelato di non essere in grado di ascoltare la musica, ormai da tanti anni, perché «quando ascolti musica non puoi più mentirti». La musica disarma e catapulta davanti a noi stessi un materiale emotivo con il quale spesso non riusciamo ad avere un rapporto armonico.


«Udire è un fenomeno fisiologico; ascoltare è un atto psicologico» (1).


È con questa frase che Roland Barthes, filosofo, linguista e semiologo francese, apre la sezione “Il corpo della musica” all’interno dello scritto L’ovvio e l’ottuso (1976). L’autore sottolinea la profonda e totale differenza di esperienza tra l’udire e l’ascoltare: il primo fenomeno è di ordine fisico, perciò descrivibile in ogni suo meccanismo grazie a scienze come l’acustica e la fisiologia dell’udito; il secondo, l’ascolto, non è ambito empirico, da poter cogliere nella sua pienezza, secondo un approccio scientifico. Uno sottostante a leggi ben definite, l’altro dai confini indefiniti, legato indissolubilmente all’interiorità del soggetto, connesso con l’irrazionale e l’inaspettato.

Martha Nussbaum, filosofa statunitense, approfondisce il rapporto tra musica e vita emotiva nel celebre testo L’intelligenza delle emozioni. Il suo approccio al tema è quello di un’amante della musica: «una dilettante la cui vita emotiva è profondamente influenzata da esperienze musicali. […] Il dilemma fondamentale è questo: da una parte, la musica sembra essere profondamente legata alla nostra vita emotiva, in effetti in modo più intenso e profondo di qualsiasi altra arte. La musica scava a fondo nel nostro intimo, esprime i nascosti moti d’amore, paura, gioia che sono dentro di noi. Ci parla e ci parla di noi, per vie misteriose, arrivando come dice Mahler, “al fondo delle cose”, rivelando nascoste vulnerabilità e aprendo, per così dire, la nostra anima al nostro sguardo» (2).

“Aprire la nostra anima al nostro sguardo”, ecco il punto: l’esposizione a una possibile consapevolezza. Come il sogno, la musica ha la capacità di rivelare qualcosa di assai preciso sulla storia della nostra vita; qualcosa di preciso ma non univoco, mantenendo quel margine di indescrivibilità che le impedisce di pervenire alla chiarezza di un concetto: l’ovvio e l’ottuso, il prevedibile e l’imprevisto, lo studium e il punctum (3)

Elio Matassi, nel testo Filosofia dell’ascolto (4), a proposito della posizione blochiana sull’ascolto afferma che il nostro “che cosa artistico pienamente determinato” lo raggiungiamo non per quello che facciamo ma per ciò che siamo. Ernst Bloch in Geist der Utopie presenta l’ascolto come un «Wir hören nur uns» (5), un autentico ascolto di noi stessi, una forma di autoascolto. Ascoltare musica, secondo l’autore tedesco, significa attingere direttamente da noi stessi e non una condizione di estraneazione, di lacerazione, rifiutando qualsiasi atteggiamento formalistico: «da noi divampa il suono come una fiamma, il suono ascoltato, non il suono in sé o le sue forme. E senza mezzi estranei ci indica il cammino, il cammino storicamente intimo» (6).


L’ascolto parla, crea spazio, definisce un luogo di feconde possibilità.


Esso è l’appello totale di un soggetto all’altro, in cui “ascoltami” sta per “toccami, sappi che esisto”. Sappiamo che l’intonazione, il colore della voce, la velocità con la quale si enuncia e altri fattori possono rivelare qualcosa di più intimo rispetto al contenuto di una frase riportata dal soggetto. Barthes designa la voce che chiede riconoscimento come una corporeità che parla, come luogo del discorso; di conseguenza, ascoltare qualcuno comporta, da parte di chi ascolta, un’attenzione aperta all’interscambio tra corpo e discorso

«La voce umana è dunque il luogo privilegiato della differenza: un luogo che sfugge ad ogni scienza, perché non esiste scienza che esaurisca la voce. Per quanto si classifichi, si commenti storicamente, sociologicamente, esteticamente, tecnicamente la musica, ci sarà sempre un resto, un supplemento, un lapsus, un non detto che si designa da solo: la voce».


Cosa fa il corpo quando enuncia musicalmente?


«Schumann risponde: il mio corpo colpisce, il mio corpo si raccoglie, esplode, si taglia, punge o al contrario, e senza prevenire, si stira, tesse leggermente. E talvolta, perché no, parla persino, declama, raddoppia la sua voce, parla ma non dice nulla: dal momento in cui è musicale, la parola non è più linguistica ma corporea. Dice solo questo e null’altro: il mio corpo si mette in condizione di parlare, quasi parlando» (7).

Ascoltare il corpo dell’altro, la maniera in cui la sua anima si esprime, sembra essere divenuto oggi un fenomeno assai raro, riscontrabile esclusivamente nelle relazioni di aiuto. Ecco il perché dei tanti laboratori nelle scuole di ogni grado sull’empatia e gestione delle proprie emozioni. L’empatia, mettersi nei panni dell’altro e saperne leggere e riconoscere il vissuto emozionale, è una capacità innata negli esseri umani (sulla quale la neuroscienza ha recentemente affisso il suo marchio di “dimostrabilità” attraverso la scoperta dei così detti neuroni specchio). Come tutti i meccanismi biologici, l’empatia può essere modificata dall’esperienza, di conseguenza è indispensabile mantenerla in esercizio, alimentarla. Se questo meccanismo viene in qualche modo alterato, dai genitori, dalla scuola o dalla società, la capacità di provare empatia diminuisce e si diventa sordi. Come possiamo metterci nei panni dell’altro se prima non attiviamo un ascolto attivo e attento verso il nostro vissuto emozionale?

Alleniamoci a stare in contatto, senza giudicare, con ciò che sentiamo, che sia rabbia, dispiacere, frustrazione, noia, altrimenti rischiamo di dare vita a un “sottosuolo” inespresso, pronto in ogni momento ad esplodere, che al contempo inquina il nostro corpo. Stare in una relazione autentica con l’io, il tu, il noi, gli ambienti che abitiamo quotidianamente, sembra essere oggi la chiave per non trasformarsi in prede di odio e disumanità.


(1) R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino, 1985, p.292.
(2) M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna, 2004, p.305.
(3) Nell’opera La camera chiara, Roland Barthes sostiene che il nostro interesse per alcune fotografie dipende dalla presenza simultanea di due particolari elementi: studium e punctum. Lo studium ha a che vedere con lo studio, con il background culturale personale, che ha un gusto, un interessamento verso qualcosa o qualcuno ma senza particolare intensità; lo studium, scrive Barthes, è “l’investimento culturale che la foto esige dal suo osservatore”. Il punctum è l’elemento che appare di rado ma improvvisamente infrange lo studium, venendoci a cercare, in modo involontario: ci colpisce, ci punge, ferisce, “partendo dalla scena, come una freccia mi trafigge”. Qualcosa che inaspettatamente ci sconvolge, in positivo o negativo che sia. “Il punctum permette alla fotografia di superare se stessa, di nascondere i propri artifici tecnici e retorici per attivare nel soggetto i propri affetti più intimi”.
R.Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1985, p.28.
(4) E. Matassi, Filosofia dell’ascolto, il Ramo, Rapallo, 2010, p.28.
(5) E. Bloch, Spirito dell’utopia, Milano, RCS libri, 2004, p.53.
(6) Ibidem, p. 58.
(7) Ibidem, p. 72.