Fridays For Future: Ecco chi sono questi ragazzi

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Si è parlato molto dei ragazzi del Fridays for Future. Molto e forse anche troppo. Si è parlato dei loro meriti e delle loro colpe, del loro coraggio e delle loro presunte incapacità.


Si è parlato del fatto che i giovani devono fare i giovani, qualsiasi cosa questo voglia dire.


Che cosa vuol dire “fare i giovani”? Chi è che stabilisce cosa debbano fare, come debbano agire e a cosa dovrebbero interessarsi? Me lo sono chiesta a lungo e, per questo motivo, ho deciso di approfittare del nostro spazio virtuale non tanto per parlare di loro ma più che altro per parlare con loro.

Ho incontrato alcuni dei ragazzi del Fridays for future di Pavia, la città che mi ospita per i miei studi, per conoscerli e li ho osservati nella loro sede di ritrovo dopo qualche ora dall’ultimo grande sciopero mondiale dello scorso venerdì 28 settembre. L’atmosfera adrenalinica per la mattinata di protesta appena passata, la stanchezza per l’organizzazione ma, al contempo, la loro freschezza inevitabile a causa della loro età, mi hanno accolta per due ore intere di confronto e insegnamento (da parte loro).

Quando sono entrata in sede, i ragazzi erano già occupati a discutere di quanto fatto e soprattutto di quanto c’è da fare. Perché da fare c’è ancora tanto oltre le proteste, oltre le polemiche, oltre i buoni propositi, ma l’esigenza di fare molto è inversamente proporzionale alla difficoltà di azione come hanno messo subito in chiaro Jacopo e Pietro (17 e 16 anni) che tra le prime cose che mi dicono emerge proprio l’emergenza di risvegliarsi dal torpore.


Quale torpore?


L’impressione condivisa è questa: sembriamo tutti addormentati e impotenti, immobili nell’agire e lenti nella presa di coscienza. Ci si comporta come se le questioni connesse al cambiamento climatico non ci riguardassero direttamente, come se non fossimo parte del problema.  La consapevolezza espressa dai ragazzi suona come una denuncia necessaria e si rivela come occhio attento (più di altri) che guarda alla nostra società, Jacopo mi dice: “ci si pensa come singoli individui e non come collettività”. Ed è a proposito della comunità e della collettività che Pietro condivide una delle esigenze più belle: “abbiamo bisogno di collettivi, abbiamo bisogno di comunità, abbiamo bisogno di dialogo”.

Questo appello tornerà più volte nel nostro scambio reciproco tanto da farmi riflettere su dove questi ragazzi così giovani abbiano recuperato l’idea di collettivo, da dove nasca il bisogno di dialogo, da dove nasca l’esigenza di scendere in piazza. La risposta può essere riassumibile e unificata così: tutte queste esigenze nascono dall’assenza. Per questi ragazzi il vero bisogno è colmare l’assenza e la tendenza individualista sempre più diffusa. Scendere in piazza, come mi dice Simone (17 anni) significa colmare il vuoto, occupare il proprio spazio, affermare la propria presenza, ma è solo un simbolo, è solo una parte dell’azione di riforma che occorre portare avanti, l’impegno deve essere continuo e agire su più fronti, come mi dice Marianna (18 anni) la cui attenzione ecologica per la salvaguardia dell’ambiente è quotidiana e coinvolge le sue scelte di vita personale.

La piazza è uno spazio fisico e anche un pretesto per abbandonare quelle virtuali (“Internet è una lente di ingrandimento che altera moltissimo la realtà”, Simone, 17 anni) ma la piazza ci costringe al contatto fisico necessario, alla relazione, al dialogo; far dialogare le differenze vuol dire garantire il loro diritto di espressione e assicurare che le minoranze siano rappresentate e ha molto a che fare con la democrazia come evidenzia Noemi (21 anni), la più moderata del gruppo, che sottolinea “l’esigenza di mettere in connessione i movimenti civili con le istituzioni democratiche”.


Ci siamo chiesti insieme cosa fosse la politica e chi debba farla, e quello che ne è uscito è che la politica è una modalità di vivere la vita, anzi per questi ragazzi è la vita stessa.


Pietro mi dice con un eufemismo che le scelte politiche iniziano fin dal mattino quando decidiamo se lavarci prima i denti oppure fare colazione, la consapevolezza del peso delle nostre scelte sulle conseguenze è il tratto più affascinante che emerge da questi ragazzi e che non è stato loro insegnato da nessuno. È un istinto naturale probabilmente sviluppatosi come se fosse un anticorpo: ci si sente responsabili del futuro nella misura in cui ci si sente naturalmente responsabilizzati e loro, del resto, sono il futuro e per il futuro devono agire nonostante il grande paradosso che li delegittima nel momento in cui si passa all’azione.

La coscienza passa da una costruzione critica faticosa ma da cui sono passate tutte le generazioni di ieri di oggi e passeranno inevitabilmente quelle di domani, e la distanza generazionale, tanto presunta e dibattuta ultimamente, in fondo non viene realmente sentita, loro manifestano esattamente come si manifestava nel ’68, come mi dicono Pietro, Jacopo e Simone: la differenza è che oggi – aggiungo io – si fatica ad ascoltarli mentre loro cercano di costruire il loro spazio che non esiste.


Ma voi vi sentite soli?  Chiedo senza pensarci troppo. E senza pensarci troppo ricevo un sì corale.


Ecco da dove viene l’esigenza di unire le differenze, di fare rete, di creare i collettivi e ricercare occasioni di confronto. Forse unire le differenze significa unire le solitudini, non annullarle ma accoglierle. Forse la passione di Pietro per i collettivi, le abitudini ambientaliste di Marianna, il senso comunitario di Jacopo, l’attivismo politico di Simone, e il profondo senso di democrazia e rispetto delle istituzioni di Marianna non faranno cambiare idea ai detrattori e negazionisti ma aiuteranno a far sentire meno soli altri ragazzi e a poggiare mattoni per il futuro. E anche se qualcuno potrà definire le loro manifestazioni “simpatiche e colorate”, in realtà loro fanno solo quello che devono fare: fanno i giovani e fanno politica. Perché i giovani sono politica.