Judith Butler tra identità, riconoscimento e resistenza
Gli anni ’90 del secolo scorso vedono emergere — dopo anni di studi tra Yale e Heidelberg — Judith Butler; classe 1956, statunitense di origini ebraiche russo-ungheresi, si impone nel panorama filosofico e sociale prendendo le mosse dal femminismo e dalle teorie di genere.
Misurandosi con il pensiero di Spinoza, Freud, Hegel, Foucault, Adorno, Nietzsche e, solo per citarne alcuni, Arendt, Derrida e Lacan, analizzando le teorie femministe di de Beauvoir, Julia Kristeva, Luce Irigaray e Monique Wittig ha impresso una svolta consistente alla filosofia occidentale, nonché all’attivismo e alla pratica filosofica in ambito politico.
Il pensiero di Butler è da sempre rivolto all’umano, sin dai suoi primi scritti ha cercato di mettere in discussione l’autonomia del soggetto, la sua supposta trasparenza e indipendenza mostrando, piuttosto, il suo essere frutto di un intenso lavorio discorsivo e pratico che nel tempo è divenuto disciplina.
« […] non si tratta, dal mio punto di vista, di scoprire ciò che l’umano realmente è, o dovrebbe essere, poiché è ormai assodato che gli umani sono degli animali e che la loro esistenza corporea dipende da sistemi di supporto che sono sia umani sia non umani.» (1)
Dal 1988 introduce il concetto di “performatività” (performative) nel suo primo lavoro Performative Acts and Gender Constitution , lavoro che verrà ripreso e ampliato nel 1990 in Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (2); secondo l’autrice la formazione del soggetto non è “naturale”, tutt’altro, dipende invece da un quadro normativo, un contesto sociale e politico, precedente la nascita biologica e identitaria dell’individuo, un quadro che decreta le possibilità del riconoscimento e della vita di ognuno.
«[…] l’altro o l’altra mi appare e si comporta tale solo se esiste una cornice di senso al cui interno io posso vederlo/a e percepirlo/a in tutta la sua separatezza ed esteriorità […] allora le norme non si limitano a guidare il mio comportamento ma condizionano pure la possibilità che ci sia un incontro fra me e l’altro.» (3)
Come affermerà anche in Bodies that matter: on the discursive limits of “sex”, la serie di parametri usati per identificare un individuo — come sesso e genere — non hanno un significato naturale e neutrale perché non vi è niente che sia immune dall’interpretazione culturale umana, sono quindi anch’essi dei significati ben strutturati.
Grazie a Butler sappiamo che ogni sostantivo rispecchia delle esclusioni, che “uomo” è sinonimo di maschio, bianco, eterosessuale, sano, occidentale e benestante.
«In che misura l’identità è un ideale normativo più che un’istanza descritta dall’esperienza? E in che modo le pratiche di regolamentazione che governano il genere governano anche le nozioni culturalmente intelligibili di identità? In altre parole la ‘coerenza’ e la ‘continuità’ della ‘persona’ non sono caratteristiche logiche o analitiche dell’essere persona, ma, piuttosto, norme di intelligibilità socialmente istituite e conservate.» (4)
Si avvicina così alla queer theory (5), affermando che nessun soggetto può legittimamente essere identificato, e quindi descritto, sulla base delle sue caratteristiche, nemmeno quelle di genere.
Ed è proprio in questo contesto che matura le sue prime critiche ai movimenti femministi: come la nozione di “oggetto”, anche quella di “donne” viene a essere un costrutto culturale, determinato nel tempo e dipendente dalle situazioni politiche e sociali.
« […] non solo c’è una gran mole di materiali che mette in dubbio l’applicabilità del ‘soggetto’ come candidato per eccellenza alla rappresentazione, ma, tutto considerato, manca persino un pieno accordo su che cosa costituisca, o dovrebbe costituire, la categorie delle donne.» (6)
L’unico modo per non reiterare le esclusioni tipiche del discorso normativo è il rifiuto della pretesa di stabilità e continuità della nozione di “donne”; secondo l’autrice la chiave per il successo dei movimenti femministi sta proprio nell’inclusività intrinseca all’abbandono di ogni descrizione limitante, basata sull’assunto che la categoria “donne” abbia delle caratteristiche specifiche e limitate, continue e coerenti nel tempo. L’accusa di Butler ai movimenti femministi è quella di aver riproposto delle discriminazioni facendole confluire entro la nozione che intendono liberare, creando così dei parametri normativi che ripropongono le esclusioni all’interno della stessa categoria.
Il suo lavoro ha mostrato le esclusioni sulle quali si regge la nostra pratica discorsiva, il nostro orientamento nel mondo, portando alla luce le vittime di questa impostazione come le donne, gli omosessuali, le persone transgender, i poveri e gli infanti.
Le identità non sono una sorta di essenza privata, tantomeno possono essere semplici attestazioni di meri dati biologici riflessi nel linguaggio, sono invece il risultato della ripetizione di atti e discorsi specifici che, performati, cioè recitati, divengono norme comportamentali e come tali formano le stesse possibilità identitarie di ognuno.
« Il corpo viene rappresentato come un mero strumento o medium attraverso il quale vengono messi in relazione significati culturali in modo meramente estrinseco. Ma il ‘corpo’ è di per sé un costruzione […]. Non si può dire che i corpi abbiano un’esistenza dotata di significato prima che siano marcati dal punto di vista del genere.» (7)
Ogni individuo viene alla luce in un contesto particolare e in una normatività a lui precedente con la quale deve scendere a compromessi per vedersi riconosciuta la propria soggettività, e aver così garantito lo status morale conforme all’attestazione di soggetto. Il discorso butleriano erode le fondamenta della concezione del soggetto come agente libero e trasparente a se stesso, smentendo la presunta naturalezza delle identità personali al fine di presentarle in tutta la loro essenza recitativa.
«[…]non esiste un potere che agisce, ma solo un agire ripetuto che è il potere nella sua persistenza e instabilità.» (8)
Ma, se da un lato ogni significazione comporta delle esclusioni, dall’altro è anche possibile scardinare questi meccanismi di oblio e oppressione risignificando le nozioni di identità e soggetto, facendo leva sulla comune vulnerabilità corporea; solo così possono darsi delle nuove pratiche che chiarificando le nozioni coinvolte siano più inclusive e mettano in mostra i costi e le sofferenze che certe norme comportano.
Allora la proposta di Butler è quella di accettare il sé come un qualcosa di non totalmente conoscibile, una proposta che mira all’abbandono di ogni pretesa di identità fissa, coerente e continua nel tempo.
« L’io non potrà mai recuperare in modo totalmente consapevole ciò che lo determina e lo vincola […] non potremo mai, attraverso la coscienza o il linguaggio, avere una totale padronanza di quelle relazioni primarie di dipendenza e impressionabilità che in modo imperscrutabile e oscuro ma comunque persistente ci formano e ci danno consistenza.» (9)
Cosa dire, quindi, di quegli individui che non si piegano al binarismo sessuale imposto dalla normatività discorsiva?
Drag queens e Drag kings esibiscono una ribellione corporea, un corpo mutevole e, in modo caricaturale, sfidano la logica identitaria che li vorrebbe categorizzare in un genere statico e specifico. Questa teatralità è un mezzo potente per oltrepassare la normatività imposta; la messa in scena di corpi, ruoli, generi e desideri non conformi al binarismo rende possibile puntare i riflettori sull’innaturalità di tutto il discorso normativo; sono atti di resistenza contro la violenza e l’esclusione sociale.
Sono le relazioni ciò che determina il grado di attenzione, tutela e protezione che ognuno può, o meno, avere; non tutte le vite sono considerate — secondo il discorso normativo — di pari dignità, e Butler pone l’attenzione su questo argomento prendendo le mosse dal tema della vulnerabilità, in Giving an Account of Oneself (10) e da quello del lutto, in Can One Lead A Good Life In A Bad Life?. (11)
La vulnerabilità, come condizione propria dei corpi e quindi della sfera umana, insieme al lutto, cioè la possibilità di celebrare una vita che ci ha coinvolti e cambiati, è ciò che fa emergere i diversi gradi di tutela e riconoscimento che permeano le vite di tutti noi. Alcuni soggetti viventi vengono esclusi dalle reti di sussistenza politiche e sociali, con il risultato di essere esposti a condizioni di inintelligibilità e oblio, considerate vite indegne e quindi già non-vite.
Per questi individui diventa allora impossibile condurre la propria vita disponendone come qualcosa che abbia valore e che sia possibile dirigere, governare: trattati come indegni vengono costretti a dipendere dal valore che gli viene assegnato dai meccanismi culturali.
« [Non si può dare per scontato] che tutti gli esseri umani viventi abbiano lo status di soggetti degni di diritti, protezione, libertà e senso di appartenenza politica: al contrario questo status va garantito attraverso mezzi politici e, quando viene negato, la deprivazione va resa manifesta.» (12)
Questa esposizione alla vulnerabilità della vita, questa considerazione di dispensabilità, è però portatrice di una carica sovversiva: come nel caso delle Drag queen e dei Drag king, anche questi individui per opporsi alla violenza del misconoscimento sociale conducono una critica radicale al sistema di potere e al discorso egemonizzante.
Non esistendo una vita privata, al sicuro da ogni incombenza e reciprocità, il corpo viene da Butler riconosciuto come aperto, esposto all’esterno e ad ogni forma di violenza e la vita soggettiva è ricondotta ad una vita più ampia — quella culturale, politica ed economica — con la quale le vite singole dovranno sempre scendere a compromessi, in un gioco di equilibri, al fine di vedersi garantito il riconoscimento che sentono di meritare in quanto soggetti.
La portata della filosofia di Judith Butler è allora quella di un invito alla resistenza e all’inclusione che vadano oltre la semplice critica dei meccanismi di potere, e superino anche il rifiuto di una forma di vita imposta, al fine di riconoscere l’interdipendenza e la vulnerabilità della vita stessa facendosi carico delle nuove responsabilità che ogni apertura comporta, con l’intento di creare delle condizioni più confortevoli per tutti, oltre la mera sussistenza.
(1) J. Butler, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of ‘sex’, trad. it. Corpi che Contano. I limiti discorsivi del sesso, Feltrinelli, Milano, 1996, cit., p. 39.
(2) J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari, 2003.
(3) J. Butler, Giving an Account of Oneself, trad. it. Critica alla violenza etica, Feltrinelli, Milano, 2006, cit., p.38.
(4) J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari, 2003, cit., p. 27.
(5) Queer theory: “La teoria queer mette in discussione la naturalità dell’identità di genere, dell’identità sessuale e degli atti sessuali di ciascun individuo, affermando invece che esse sono interamente o in parte costruite socialmente, e che quindi gli individui non possono essere realmente descritti usando termini generali come “eterosessuale” o “donna”. La teoria queer sfida pertanto la pratica comune di dividere in compartimenti separati la descrizione di una persona perché “entri” in una o più particolari categorie definite.”
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_queer
(6) J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari, 2003, cit., p. 4.
(7) J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari, 2003, cit., p. 15.
(8) J. Butler, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of ‘sex’, trad. it. Corpi che Contano. I limiti discorsivi del sesso, Feltrinelli, Milano, 1996, cit., p. 1.
(9) J. Butler, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of ‘sex’, trad. it. Corpi che Contano. I limiti discorsivi del sesso, Feltrinelli, Milano, 1996, cit., p. 81.
(10) J. Butler, Giving an Account of Oneself, trad. it. Critica alla violenza etica, Feltrinelli, Milano, 2006.
(11) J. Butler, in Can One Lead A Good Life In A Bad Life, trad. it. A chi spetta una buona vita? A cura di Nicola Perugini, Nottetempo, Roma, 2013.(12) J. Butler, in Can One Lead A Good Life In A Bad Life, trad. it. A chi spetta una buona vita? A cura di Nicola Perugini, Nottetempo, Roma, 2013, cit., p. 13.
Immagine di copertina: Judith Butler al CCCB 2018.
Autore: Miquel Taverna.
Fonte: Centre de Cultura Contemporània de Barcelona
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Judith_Butler_al_CCCB_2018.jpg
Un materialismo queer è possibile
28 Novembre 2024Il caso di Gisèle Pelicot: cos’è la rape culture?
24 Novembre 2024Altricorpi. Scoperta del proprio corpo e dei corpi altrui
21 Novembre 2024
-
Arte, vandalismo e disobbedienza
6 Marzo 2023 -
Sesso e temperamento
13 Maggio 2022 -
Evangelion 3.0+1.01: Thrice Upon a Time
6 Ottobre 2021
Filosofemme è un progetto che nasce dal desiderio di condividere la passione per la filosofia tramite la figura delle filosofe.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Privacy PolicyCookie Policy