«Angela Davis è un miracolo» commenta la scrittrice statunitense Alice Walker in una conversazione con Frank Barat, curatore della più recente raccolta di saggi di Davis dal titolo La libertà è una lotta costante (1). L’ammirazione estatica della scrittrice nel definire Angela Davis svela la complessità e l’indefinibilità della sua figura. Letteralmente, l’impossibilità di de-finirla, di chiuderla in confini.
Angela Yvonne Davis è un’accademica e filosofa statunitense, implacabile attivista per i diritti civili e sociali.
Ha militato nel Black Panthers Party prima di abbandonarlo criticandone la struttura sessista, ed è stata due volte candidata per il Partito Comunista degli Stati Uniti. È una delle voci più autorevoli del femminismo nero degli anni ‘60 e ’70.
Nata a Birmingham, Alabama, nel 1944, e cresciuta sotto la segregazione razziale di Jim Crow, Angela Davis ha esperienza personale delle pesanti condizioni di oppressione in cui versavano i neri nel Sud degli Stati Uniti. Tra bombe, incendi dolosi e intimidazioni verbali o fisiche, la violenza nei loro confronti era sistematica e in gran parte impunita.
La segregazione alimentava nette disparità sociali: i bambini afroamericani frequentavano scuole riservate a loro, scarsamente sovvenzionate e vessate dalla povertà estrema degli studenti. Davis, la cui famiglia godeva di una maggiore sicurezza economica rispetto ad altre della stessa comunità, può spostarsi a New York per frequentare le scuole superiori e di lì iscriversi alla Brandeis University, in Massachusetts (2).
Dopo un periodo di studi filosofici alla Sorbonne e il rientro negli Stati Uniti, inizia a insegnare alla UCLA e a militare in movimenti politici per la liberazione dei neri, per i diritti delle donne, quelli della working class e per i diritti dei detenuti in carcere.
Per le sue idee rivoluzionarie dichiaratamente marxiste, antirazziste e femministe, all’inizio del suo operato da attivista Angela Davis riceve minacce di morte quotidiane, fino a comparire nella lista dei più ricercati dell’FBI perché sospetta di complicità nell’omicidio di un giudice. Viene infine arrestata e incarcerata per sedici mesi.
Nel periodo di reclusione, Davis prepara personalmente i discorsi di difesa che dovrà pronunciare in tribunale. Per smascherare la violenza istituzionale sistematica nei confronti degli afroamericani, dedica le sue ore di studio in carcere a uno dei temi che saranno centrali per gli sviluppi della sua teoria: la ricostruzione storica del ruolo della donna nera nella società schiavista contro i falsi miti della non-ribellione femminile e del matriarcato nero. Si tratta del primo reale tentativo di leggere questo periodo storico in chiave femminista, che pone anche le basi per una denuncia dell’eredità razzista che esso ha consegnato al presente.
Nel febbraio del ’72 viene scarcerata su cauzione e nel giugno dello stesso anno, quando ormai il suo caso ha attirato un interesse internazionale, viene assolta da tutte le accuse.
A questo palese tentativo di frenare la sua attività, Angela Davis risponde conducendo le sue battaglie con forza rinnovata, combattendo per la reale libertà della comunità afroamericana e di tutte le donne.
È una lotta che si gioca su due fronti: su quello intellettuale e su quello pratico. Secondo Davis, teoria e prassi non solo sono conciliabili ma anche interdipendenti, e gli ideali filosofici per una società più giusta sono sterili se non poggiano su concreti atti politici di resistenza contro istituzioni e pratiche oppressive (3).
La libertà è un processo, e considerarlo concluso è il primo passo per metterla a rischio. Davis ricorda che i diritti civili e politici conquistati dai neri con tanto sforzo non garantiscono alcuna sicurezza se non vengono affiancati da solidi diritti economici e sociali.
Il diritto di voto, per esempio, non era davvero accessibile a tutti. Esso era impossibile da esercitare per le persone analfabete, e la concessione della tessera elettorale poteva essere negata tout court su base razziale, come era accaduto alla stessa Davis ventunenne (4). Molti afroamericani, senza possibilità di istruzione e senza tutela da pratiche razziste, venivano così esclusi dell’effettiva opportunità di decidere delle sorti politiche del Paese.
Parlando del Black Power Movement cui prese parte, Davis si esprime così sull’insufficienza di diritti contro cui il movimento lottava:
«Non bastava rivendicare i diritti legali nella società per come si presentava, ma occorreva esigere diritti sostanziali – lavoro, case, assistenza sanitaria, istruzione, eccetera – e contestare la struttura stessa della società» (5).
Perché una rivendicazione simile fosse possibile, era imprescindibile comprendere in che modo le forze discriminatorie agivano nella società, a che livello e nei confronti di chi.
Nel suo volume Donne, razza e classe (6), Davis conduce un’analisi storica dell’oppressione razziale, di genere e di classe dallo schiavismo in poi, adottando una prospettiva insieme femminista e marxista. Con il suo testo dimostra che queste forme di violenza sono profondamente legate tra loro, e che i movimenti di emancipazione hanno commesso troppe volte l’errore di sottovalutare la connessione tra razza, genere e classe, o di escluderla volontariamente.
Il movimento per l’abolizione della schiavitù vide dagli anni ’30 del diciannovesimo secolo una partecipazione femminile crescente. Le donne, tuttavia, non potevano apportare alcun serio contributo a questa causa perché, da un lato, non avevano la possibilità di contare politicamente, e dall’altro subivano continui attacchi in quanto donne che si intromettevano nello spazio del discorso pubblico.
«[…] Una volta iniziati gli attacchi dei suprematisti maschi contro di loro, si resero conto che se non si fossero difese in quanto donne – difendendo in generale i diritti delle donne – sarebbero state escluse per sempre dalla campagna di liberazione degli schiavi» (7).
Ciò nonostante, il movimento per i diritti delle donne negli Stati Uniti dimenticò rapidamente questa origine comune.
A partire dal 1890 circa, «la campagna per il suffragio femminile comincia ad accettare definitivamente l’abbraccio fatale del suprematismo bianco» (8), assumendo una posizione apertamente razzista. In cambio di un appoggio politico sul diritto di voto che altrimenti non avrebbero ottenuto, le suffragiste – in gran parte donne bianche di classe media – assicurarono il loro appoggio alla classe borghese e capitalista in modo da neutralizzare la minaccia politica rappresentata dai neri votanti.
Così facendo, non solo escludevano dalla loro battaglia tutti gli uomini e le donne nere, ma anche le donne bianche appartenenti alla working class, le quali nel frattempo si impegnavano in proteste per rivendicare migliori condizioni lavorative e il diritto di essere intestatarie del proprio stipendio.
Secondo Davis, il capitalismo come sistema economico di sfruttamento traeva forza dalle disuguaglianze che permettevano la disponibilità di forza-lavoro ampiamente sottopagata.
Il movimento per il voto alle donne non comprese che «razzismo e sessismo frequentemente convergono e [che] la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo statuto oppressivo delle donne di colore» (9). Senza questa consapevolezza il percorso verso la parità di genere si sarebbe rivelato molto tortuoso.
È importante tenere a mente che il concetto di “donna” che Davis impiega nei suoi scritti non indica la condizione biologica femminile, né quello di “razza” si basa su un comune dato biologico. Sono la pratica politica e la sedimentazione storica a indurre la categorizzazione degli individui su base biologica.
Un gruppo come quello delle “donne” non incarna affatto un soggetto universale. Anzi, pensarlo come qualcosa di omogeneo sarebbe fuorviante dato che le stratificazioni sociali, di classe e di razza marcano profonde differenze al suo interno. Secondo Cinzia Arruzza, infatti, Davis insegna che «qualsiasi movimento di liberazione, per essere realmente universalista, deve conoscere e tenere in conto la storia e la stratificazione di esperienze dei diversi soggetti in gioco» (10).
Questo è proprio quello che cercò di fare il femminismo nero negli anni ’70: mettere in campo «un impegno teorico e pratico teso a dimostrare che razza, genere e classe sono inseparabili nella realtà sociale che abitiamo» (11).
Il concetto di intersezionalità che conosciamo oggi come lente teorica della sociologia e come approccio di un femminismo sempre più inclusivo trova in Angela Davis una fondamentale anticipatrice. Negli anni ’70 Davis ha puntato il riflettore sull’interdipendenza tra le disuguaglianze di genere e quelle di razza e di classe, mostrando che la violenza che le consente è una sola ed è sistemica. Oggi la sua battaglia femminista e intersezionale continua nella stessa direzione e anzi allarga il suo raggio:
«Il femminismo implica molto di più che non la sola uguaglianza di genere. […] Deve implicare una coscienza riguardo al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, ai postcolonialismi e all’abilità, e una quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare» (12).
(1) A. Davis, La libertà è una lotta costante (2016), Ponte alle Grazie, Milano, 2018.
(2) J. James, “Introduction” a The Angela Y. Davis Reader, Blackwell Publishers, Malden, MA, 1998, pp. 2-3.
(3) Ivi, p. 19.
(4) Ivi, p. 6.
(5) A. Davis, La libertà è una lotta costante (2016), Ponte alle Grazie, Milano, 2018, p. 16.
(6) A. Davis, Donne, razza e classe (1981), Alegre, Roma, 2020.
(7) Ivi, p. 75.
(8) Ivi, p. 157.
(9) Ivi, p 132.
(10) Ivi, p. 14.
(11) A. Davis, La libertà è una lotta costante (2016), Ponte alle Grazie, Milano, 2018, p. 17.
(12) Ivi, p. 117.
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