Identità, alterità e ospitalità

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Unheimliche è un termine tedesco difficile da tradurre e definire. Una prima traduzione italiana potrebbe essere “sconcertante”, “perturbante”, “spaesante”. Si tratta, però, di una trasposizione che, se non indagata accuratamente, rischia di non veicolare la pregnanza concettuale originaria, lasciando unicamente cadere il riferimento alla sfera semantica della “casa”. Unheimliche contiene, infatti, la radice heim – casa, dimora, focolare – e la particella negativa –un. Tuttavia, non significa solo ciò che non è familiare.


È un termine che segnala, piuttosto, una specifica sfumatura di turbamento: qualcosa che ci è vicino perde improvvisamente la sua ovvietà e disponibilità, facendosi misterioso e spaventando.


A rendere evidente questa ricchezza semantica è Sigmund Freud nel saggio breve del 1919, Das Unheimliche. Attraverso un’accurata analisi linguistica, il padre della psicoanalisi afferma che la caratteristica saliente dell’Unheimliche risiede precisamente nell’intreccio tra noto e spaventoso, familiare ed estraneo, è «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare» (1). Heimlich e unheimlich non sono termini, così, contrari. La familiarità contiene in sé il germe dell’incertezza: lo spaesamento nasce quando il familiare ci disorienta. Il perturbante non impressiona semplicemente la sensibilità, ma costringe l’uomo ad abbandonare l’abituale. È lo spezzarsi della norma e di quella tranquillità che essa garantisce. Ma, nella sua estraneità rimanda a qualcosa che concerne la nostra sfera più intima.


Riflette sul concetto di Unheimliche anche Martin Heidegger con attenzione più o meno intensa tra gli anni Venti e gli anni Quaranta. Possiamo domandarci, dunque, se tra Freud e Heidegger sia esistito un dialogo, un confronto taciuto.


Si tratta effettivamente di un accostamento interessante (2), perché Heidegger non esita ad allontanarsi con fermezza dalla psicoanalisi e a criticare Freud nei Seminari di Zollikon (1959-1969). Secondo il filosofo, non si può trovare se stessi in un vuoto auto-rispecchiamento, in un’indagine della psiche. L’errore di Freud sarebbe pretendere di spiegare l’esistenza come un altro fenomeno, costituito, cioè, da una connessione causale calcolabile attraverso i meccanismi dell’inconscio. Freud tralascerebbe il problema dell’essere, perché intende l’essere già come oggetto, sottoponendolo alle leggi della fisica. Per Heidegger, invece, il soggetto non è una realtà monadica e non è possibile attribuirgli delle qualità a priori, poiché esso si costituisce ogni volta nella relazione col mondo.


Tuttavia, in entrambi si cade in una sorta di aporia. 


Freud, pur tacendo sull’essere, ammette che nell’inconscio «è impossibile fare distinzione tra verità e scena emozionale» (3). Un’oggettività della soggettività, quindi, che apre ad un’ambiguità di fondo. Dall’altra parte, Heidegger sembra sostenere una fiducia eccessiva nell’apertura dell’essere, senza tener presente la ricaduta inevitabile nella fissazione dell’identità. In entrambi, dunque, si nota un movimento ambiguo tra il riconoscimento che non è unicamente il soggetto a tirare le fila della realtà e l’inevitabilità di un attaccamento alla soggettività (4).

È questo il punto cruciale in cui Freud e Heidegger sembrano incontrarsi. L’Unheimlich diventa, in entrambi, esposizione all’ignoto e, al tempo stesso, necessità di assorbirlo. Un meccanismo non agevole per il soggetto perché, anzi, porta con sé angoscia. L’angoscia di non poter rinunciare all’identità, all’unità, nel momento stesso in cui queste esigenze si fanno irraggiungibili perché messe in discussione da un’alterità che inquieta.


Unheimliche racchiude, dunque, la problematica tra identità e alterità.


Il soggetto non può chiudersi in se stesso perché in dialogo continuo con altro, un altro che non garantisce la sua identità, ma la fa vacillare. In parole più semplici, il pensiero scorge nel suo oggetto un’eccedenza, scontrandosi con qualcosa che non si riduce ai consueti nessi e distinzioni. È proprio questo spaesamento che permette alla soggettività di costituirsi e alle cose di aver senso.

Il confine tra esterno e interno si fa, così, fluido e lascia intravedere un altro che intacca ogni forma certa di identità a priori. Il confine non sparisce: esso c’è, esclude e lascia passare allo stesso tempo. Il proprio è costretto a plasmarsi continuamente in rapporto a un esterno angosciante. Questo incontro si colora di sfumature particolari quando l’altro fuori di me proviene da un Paese diverso ed è stigmatizzato dalla società nella figura di uno straniero pericoloso. L’inquietudine, dunque, si rafforza e rischia di produrre un irrigidimento alterato del confine esterno/interno. 


È Jacques Derrida a declinare, sulla scia delle riflessioni di Freud e Heidegger, l’Unheimliche nella figura dell’ospitalità.


Lo straniero esibisce la sua ambiguità, perché è colui che varca la casa, ma la sua presenza giustifica la costituzione stessa della casa. Un io già abitato dall’altro. Come riporta Umberto Curi in Straniero, per Derrida:

“L’Altro è colui o colei davanti al quale sono vulnerabile e di cui non posso nemmeno negare l’alterità; non posso dire che apro le porte, che invito l’Altro: l’Altro è già là. È questa l’ospitalità incondizionata.” (5)

Perturbante è la presa di coscienza di una duplicità insuperabile. L’impatto sembra farsi più duro «quando mi trovo a dubitare della vera “natura” dell’altro, quando non so discernere un’unica fisionomia nell’altro, quando non so se esso sia amico o nemico» (6). 

La riflessione sull’Unheimliche, dunque, ci conduce a penetrare una tematica scottante e attuale dai complicati risvolti politici. 

Quel rischio di irrigidimento del confine non è più metaforico ma diventa reale, visibile e si radicalizza nel linguaggio comune. Nel testo della relazione pronunciata in occasione del Convegno per la pubblicazione di Straniero, Curi sostiene:

“[…] per quanto riguarda il modo in cui i problemi in precedenza affrontati “precipitano” nel linguaggio comune, si può notare che l’impiego dell’espressione “straniero” implica una caratterizzazione in termini esclusivamente negativi, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). L’espressione si limita a rilevare la loro esternità priva di qualsiasi altro connotato salvo quello della stranezza. Alla esteriorità si aggiunge così la nota della difformità da ciò che è consueto, e che perciò suscita perplessità e sconcerto. In molti casi, dunque, è “estraneo” o “straniero” quello che è anche percepito come “strano”. Il primo effetto semantico di tale rappresentazione linguistica è l’oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l’umanità che viene da fuori: ciò che dell’ “altro” il termine straniero ritiene pertinente è (?) semplicemente la sua non-appartenenza, rispetto alla quale ogni ulteriore nota distintiva appare irrilevante o del tutto secondari. L’anonimato in cui l’appellativo di stranieri rigetta la varietà dei gruppi umani si riflette sulla natura della relazione, che entro tale orizzonte di senso diventa possibile, rendendola massimamente impersonale.” (7)


Una «malattia dei confini» (8) che mette in crisi la stessa costituzione dell’Io.


È sicuramente complesso rintracciare una medicina capace di scardinare velocemente i sintomi, ma iniziare da un sistema educativo diverso, che si faccia portavoce di un “perturbante” da accogliere, potrebbe essere un punto di partenza.





(1) Sigmund Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 270. 

(2) Tesi proposta da Graziella Berto in Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Bompiani, Milano, 1999. 

(3) È una citazione tratta dalla lettera a Fliess del 21 settembre 1897, che Graziella Berto nel testo prima citato riporta a pagina 4. 

(4) Per approfondire Graziella Berto, Freud, Heidegger, Lo spaesamento, Bompiani, Milano, 1999, p. 5-10. 

(5) Umberto Curi, Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, p. 142-144.

(6) Ivi, p. 56.

(7) http://www.casadellacultura.it/pdfarticoli/Curi-Straniero-Milano.pdf, p. 17-18.(8) Espressione eloquente utilizzata da Roberto Escobar in Metamorfosi della paura, il Mulino, Bologna, 1997, p. 14-15.