In che modo il patriarcato influenza e plasma la relazione che intercorre tra genitori e figli?
Nella nostra società diamo estrema importanza alla relazione di paternità e moltissimi dei nostri costumi sociali sono legati al sistema patriarcale dal quale questa prende vita. Uno dei tanti esempi consiste nella scelta del cognome per la prole: ancora oggi, generalmente, il nome di famiglia è quello del padre, nonostante i rapporti di subordinazione siano stati messi in discussione.
L’idea secondo la quale la paternità è il rapporto che definisce per eccellenza i legami parentali non è di recente costruzione.
Già nel libro della Genesi si ha una chiara testimonianza dei ruoli che donne e uomini dovrebbero intrattenere nella riproduzione della specie: qui, in un sistema di parentela patriarcale, le donne partoriscono i figli degli uomini (1). Se è vero che gli uomini per avere una prole devono imperativamente passare attraverso il corpo di una donna, si è reso necessario, da parte di questi ultimi, dominare la maternità e le capacità riproduttive delle donne (oltre che la vita della propria discendenza).
Per avere un esempio di questo controllo, basti pensare ai secoli di caccia alle streghe, donne detentrici di un sapere che permetteva la prevenzione di gravidanze indesiderate attraverso la contraccezione e il loro termine attraverso l’aborto. Queste donne, solitamente erboriste e levatrici, vennero rimpiazzate da medici (uomini) la cui esperienza era in genere basata sul sapere accademico e universitario; come conseguenza, i metodi contraccettivi furono pubblicamente amministrati, diventando così questioni di dominio pubblico (2).
Grazie alla scienza moderna, oggi sappiamo che il nostro contributo genetico viene in egual misura sia dal gamete maschile che da quello femminile, ma ciò non toglie che questa stessa scienza non sia stata (e non sia tutt’ora) immune da visioni androcentriche e sessiste, anche in ambiti riguardanti la riproduzione umana.
Ad esempio, con uno dei primi usi scientifici del microscopio si cercò nel seme dell’uomo un piccolo homunculus, la rappresentazione di un minuscolo essere umano, e da questa ne derivarono poi tutta una serie di conseguenze anche in campo bioetico e giuridico (3) – basti pensare che le campagne contro l’aborto portate avanti dai movimenti pro-life/no-choice si basano proprio sulla convinzione che l’embrione sia un piccolo essere umano (4); inoltre la metafora dell’oocita addormentato, che solamente uno spermatozoo può risvegliare dal suo sonno dogmatico, è stata criticata solo recentemente, a cavallo tra la fine degli anno Ottanta e l’inizio degli anni Novanta (5).
Nonostante le difficoltà, il vecchio sistema patriarcale, che promuoveva l’idea secondo la quale le donne erano il terreno fertile nel quale il seme dell’uomo poteva crescere, è stato messo in dubbio, permettendo così ad alcune donne di ottenere privilegi che fino ad allora erano di esclusiva maschile.
Questi privilegi non furono però acquisiti gratuitamente, ma ottenuti a scapito di altre donne; infatti, erano in genere uomini di classe medio-alta che “ingaggiavano” – leggi “sfruttavano” – o permettevano alle proprie mogli di “ingaggiare” (tramite l’acquisto di servizi o tramite lo schiavismo) altre donne di classi svantaggiate, al fine di poter ricoprire quei ruoli sociali che avrebbero dovuto rivestire le prime (sia il ruolo di madre, sia il ruolo di amante) (6).
Questa pratica non è però da ritenersi lontana da noi; infatti è facile ritrovarla, ad esempio, nel mercato della riproduzione in India (e in altri paesi del mondo), dove coppie abbienti hanno la possibilità di acquistare i servizi (o i bambini) delle madri surrogate; oppure nel mercato della cura e dell’assistenza domestica, dove, nel caso europeo, i Paesi dell’Est (specialmente Ucraina, Romania, Polonia e Russia) forniscono una manodopera femminile essenziale per le famiglie dell’europa occidentale (7).
Se in una società di tipo patriarcale, dal punto di vista maschile, ciò che è fondamentale per avere dei figli “realmente propri” è il seme, risulta di relativa importanza la rispettiva controparte (senza contare che si può assumere una donna per il lavoro di cura necessario).
Se si prende in esame il punto di vista delle donne ci si potrebbe aspettare che ciò che risulta essere insostituibile, e che rende i figli che portiamo in grembo “realmente nostri”, sia la premurosa attenzione materna nei loro confronti, oltre che al lavoro del nostro corpo. Ma in un contesto sociale in cui sempre più spesso ci si rivolge alla tecnica per sopperire all’incapacità di riprodurci, anche questa prospettiva viene posta in dubbio.
Prendiamo come esempio le Nuove Tecnologie Riproduttive: ricorrendo ed esse abbiamo, tra le molteplici alternative, la possibilità di impiantare un embrione in una donna estranea ad esso geneticamente. Grazie ai nuovi progressi scientifici legati alla procreazione medicalmente assistita, è andata via via affermandosi una pratica che prende il nome di “maternità surrogata” o “gestazione per altri” (8); questa sarebbe «una gravidanza intrapresa da una donna a seguito di un accordo con validità legale tra lei (e il suo eventuale marito) e altri che vogliono diventare i genitori sociali della neonata, […]» (9).
Mediante essa, una donna si fa portatrice di quello che poi sarà il figlio o la figlia di coloro che ne hanno richiesto i servizi. Ricorrendo alla gestazione parziale per altri, accettando l’ideologia del patriarcato, il “vero” genitore non potrà essere altro da colui (o colei) che condivide con la propria prole lo stesso patrimonio genetico. Ciò che rende un figlio il proprio figlio non è il sangue versato e la fatica impiegata per metterlo al mondo, bensì il legame genetico che unisce il genitore ad esso.
In un contesto sociale come il nostro, il gamete maschile e quello femminile sono ciò che conta, perchè è il legame genetico ad avere maggior valore e di conseguenza, quello che risulta essere rimpiazzabile, sono le madri stesse (in questo caso surrogate) (10).
In una società patriarcale e sessista, in cui la figura materna incontra numerose difficoltà anche per via del carico mentale legato al lavoro di cura (11), si rende necessario porsi maggiori domande sulle differenze valoriali che la figura paterna ricopre rispetto a quella materna (pensiamo alla differenza del periodo concesso tra il congedo di paternità e quello di maternità in Italia – ad oggi sono dieci i giorni per il congedo paterno, lo standard minimo imposto dalla Comunità Europea, e cinque mesi per le madri, senza contare che questa soluzione non prende in considerazione i bisogni delle coppie che non rientrano nello spettro eteronormativo) (12).
Capire le ragioni che permeano queste differenze per poi smantellarle, potrebbe essere un buon passo iniziale per liberarci delle lenti patriarcali, che inevitabilmente influenzano il modo in cui leggiamo il mondo.
(1) Cfr. Rothman, Motherhood Under Patriarchy, 1998, pp. 21-31.
(2) Cfr. Gaard, Reproductive Technology, or Reproductive Justice?, 2010, pp. 105-106.
(3) Vedi nota (1).
Cfr. Rothman, Motherhood Under Patriarchy, 1998, pp. 21-31.
(4) Cfr. www.prolifeaction.org – [13/01/2021]
(5) Cfr. Fehr, “Feminist Philosophy of Biology”, 2011.
https://plato.stanford.edu/entries/feminist-philosophy-biology/ – [13/01/2021]
Per ulteriori approfondimenti consulta: E. Martin, The Egg and the Sperm: How Science has Constructed a Romance Based on Stereotypical Male-Female Roles, in Signs. Journal of Women in Culture and Society, Vol. 16, N. 3, Spring 1991, pp. 485-501; Biology and Gender Study Group, The Importance of Feminist Critique for Contemporary Cell Biology, in Hypatia, Feminism and Science 2, Vol. 3, N. 1, Spring 1988, pp. 61-76.
(6) Vedi nota (1).
Cfr. Rothman, Motherhood Under Patriarchy, 1998, pp. 21-31.
(7) Cfr. Cooper, Waldby, Biolavoro Globale, 2015, pp. 109-110.
(8) Credo che sia qui necessario fare un inciso e distinguere la gestazione per altri totale da quella parziale. Nella Gpa tradizionale, la madre biologica partorisce contribuendo con il proprio corredo genomico, invece nella Gpa gestazionale la madre surrogata porta a termine la gravidanza senza contribuire geneticamente. Una delle ragioni per la quale è fondamentale saper distinguere tra questi due tipi di maternità è perché, dal punto di vista giuridico e in base alla Nazione in cui si ricorre a questa pratica, ci sono delle differenze se il neonato è imparentato geneticamente con la madre partoriente o meno.
Cfr. Danna, Fare un figlio per altri è giusto [FALSO!], 2017.
(9) Ivi, pp. XI-XII.
(10) Vedi nota (1).
Cfr. Rothman, Motherhood Under Patriarchy, 1998, pp. 21-31.
(11) Cfr. Emma, Bastava Chiedere!, 2020.
Secondo un report Istat, nel 2018 la conciliazione tra il lavoro e la famiglia vede le madri propense sette volte di più a scendere a compromessi riducendo l’orario di lavoro a dispetto dei padri.
Cfr. https://www.istat.it/it/archivio/235619 – [13/01/2021]
(12) Cfr. https://www.instagram.com/p/CJ6YwgKnXOi/ – [13/01/2021]
Bibliografia
- Biology and Gender Study Group, The Importance of Feminist Critique for Contemporary Cell Biology, in Hypatia, Feminism and Science 2, Vol. 3, N. 1, Spring 1988, pp. 61-76.
- M. Cooper, C. Waldby, Biolavoro Globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma, 2015.
- D. Danna, Fare un figlio per altri è giusto [FALSO!], Laterza, Bari-Roma, 2017.
- Emma, Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Laterza, Bari-Roma, 2020.
- G. Gaard, Reproductive Technology, or Reproductive Justice?: An Ecofemminist, Enviromental Justice Perspective on the Rhetoric of Choice, in Ethics and the Environment, Vol. 15, N. 2, 2010, pp. 103-129.
- E. Martin, The Egg and the Sperm: How Science has Constructed a Romance Based on Stereotypical Male-Female Roles, in Signs. Journal of Women in Culture and Society, Vol. 16, N. 3, Spring 1991, pp. 485-501.
- B.K. Rothman, Motherhood Under Patriarchy, K.V. Hanses, A.I. Garey (a cura di), Families in the U.S.: Kinship and Domestic Politics, Temple University Press, Philadelphia, 1998, pp. 21-31.
Sitografia
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