È notizia recente quella della prima molestia sessuale in Horizon Worlds, la piattaforma social in VR (realtà virtuale) di Meta. Una sorta di prototipo del metaverso, al momento disponibile per pochi cittadini statunitensi e canadesi, che dovrebbe somigliare alla realtà virtuale a cui Mark Zuckerberg sta lavorando investendo, solo nel primo anno, 50 milioni di dollari.
Sarà Seul la prima città interamente riprodotta nel metaverso in cui a partire dal 2023 alcuni servizi e attività professionali si potranno totalmente svolgere in esso. Anche la Cina, con il colosso tech Baidu, ha iniziato la corsa agli investimenti su questa nuova realtà digitale. È bene insomma che ognuno di noi inizi a farsi una chiara idea su cosa sia questo metaverso e la realtà che ci aspetta nel cyberspazio. Realtà che è già il presente.
Che cos’è il metaverso.
Prima di lanciarci in osservazioni di ordine filosofico, occorre definire in poche parole che cosa sia il metaverso e quale il progetto dell’azienda Meta annunciato ufficialmente alla fine del 2021. Il termine fa la sua comparsa nel 1992 in Snow Crash, romanzo di fantascienza cyberpunk di Neal Stephenson. Non molto lontano dalla narrazione del romanzo, il metaverso di Meta ha l’ambizione di inaugurare una nuova era di internet: un mondo digitale fluido, virtuale e immersivo, a tre dimensioni, all’interno del quale un numero illimitato di utenti, sotto forma di avatar, può svolgere svariate attività, come andare ad un concerto, lavorare, acquistare prodotti, persino terreni, visitare città. Il tutto concretamente dal divano di casa propria per mezzo di un visore.
Insomma, non è un gioco, ma una realtà parallela che si integrerebbe via via alla vita reale e nella quale verrebbero a riprodursi, nel bene e nel male, i meccanismi della nostra società, in senso innanzitutto economico-capitalistico. Un mondo nel quale si può generare valore e non solo: in cui è possibile fare esperienza di attività sociali, educative, culturali, con tutto ciò che ne consegue in senso negativo in termini di disuguaglianze sociali e anche di fragilizzazione dei rapporti.
Virtuale in che senso?
Philippe Quéau, filosofo ed estetologo contemporaneo, ci propone di non ridurre i termini della questione a un dualismo semplicistico tra il reale e il virtuale. Il virtuale è una nozione che deriva dal latino virtus, forza d’animo, la cui radice rimanda a vir, uomo, e a vis, forza. La virtualità, non indica qualcosa di irreale, ma qualcosa che si configura come potenzialità, come progetto di realtà. Oggi, fa notare Quéau, «le concezioni classiche, come ad esempio quella kantiana dello spazio e del tempo, vengono soppiantate da uno spazio-tempo fluido, plasmatico, fusionale, anche se con rotture e scarti profondi» (1).
Reale e virtuale andrebbero dunque considerati come una «inedita e superiore metacategoria» (2). E difatti, fa notare ancora il filosofo, il 99% del capitale finanziario mondiale è virtuale, ma condiziona e determina il reale. Anche in ambito militare, aggiungiamo noi, il cyberspazio si afferma come il quinto elemento di conflitto, dopo mare, aria, terra e spazio. «Il virtuale si presenta come una nuova rappresentazione del reale suscettibile di diventare tanto uno strumento d’intelligibilità, quanto una nuova forma di alienazione», afferma Quéau (3).
La macchina dell’esperienza di Nozick.
Proprio la questione dell’alienazione è qui di particolare interesse filosofico. Cosa significa fare esperienza nel metaverso? Sorprende come alcuni interrogativi che siamo chiamati a porci siano stati sollevati dalla filosofia quasi cinquant’anni fa, ancor prima della nascita di internet. Robert Nozick (1938-2002), nel 1974, in Anarchia, stato e utopia descrive uno scenario analogo al metaverso. Il filosofo statunitense immagina la possibilità di collegarci a una macchina capace di darci qualsiasi esperienza desideriamo. Al posto del visore, una vasca da bagno nel quale il nostro corpo è immerso, collegato ad alcuni elettrodi (richiamando, forse involontariamente, il classico esempio scetticista dei cervelli in una vasca). Ipotizza inoltre, ogni due anni, la possibilità di staccarci dalla macchina solo per selezionare le esperienze da svolgere nei due anni a venire.
Quale significato assumono le esperienze attraverso la macchina, cosa sentiremmo “dall’interno”? Si chiede. Collegarsi alla macchina per Nozick è “una specie di suicidio”. «In primo luogo noi vogliamo fare certe cose, e non soltanto avere l’esperienza di farle. Nel caso di certe esperienze, è solo perché vogliamo anzitutto compiere le azioni che desideriamo l’esperienza di farle o di pensare di averle fatte» (4). In secondo luogo, osserva che sono le esperienze che copiamo nel mondo fisico che ci determinano, ci rendono un tipo di persona.
A cinquant’anni da quelle pagine ci chiediamo, infatti: com’è una persona che passa una parte del tempo della propria vita chiusa in casa, separato da altri, immerso nel metaverso?
«È coraggioso, gentile, intelligente, spiritoso, affettuoso?» (5). In ultima analisi, collegarsi alla macchina dell’esperienza, ci confinerebbe in una realtà artificiale, in cui mancherebbe del tutto l’esplorazione profonda, il contatto. In conclusione, oltre all’esperienza, al di là di questa, c’è un qualcosa che ci interessa più dell’esperienza stessa e che ha a che fare con l’essere, con il valore della persona, con l’unicità che ci distingue dagli altri. «Forse quello che desideriamo è vivere (verbo attivo) noi stessi, a contatto con la realtà» (6).
Il consenso e il principio di responsabilità.
Siamo davvero così entusiasti di addentrarci in questo mondo? È inevitabile? Qual è il ruolo di ognuno di noi di fronte a ciò? Siamo sicuramente chiamati a una presa di coscienza, all’esercizio della scelta e della responsabilità se non vogliamo essere parte passiva di questo enorme processo di trasformazione. Non c’è dubbio che lo scenario che presto entrerà nella nostra quotidianità si sia infatti edificato sul consenso. L’enorme potere che Facebook ha conquistato si deve al consenso di ognuno di noi moltiplicato per due miliardi di persone sulla faccia della terra. Un consenso senza precedenti nella storia dell’umanità.
Abbiamo scelto di conferire consenso ai social, nonostante le molteplici criticità di non poco conto, che vanno dalla profilazione di dati a fini commerciali alla diffusione di fake news, all’echo-chamber (l’amplificazione delle informazioni, siano esse effettive o fallaci), fino alla capacità di influenzare l’opinione pubblica su temi di vitale importanza, per non parlare delle conseguenze psicologiche legate allo sviluppo di giovanissimi e adolescenti. Tutte questioni che nel metaverso saranno presenti e con ogni probabilità intensificate. Abbiamo insomma scelto di continuare a utilizzare questo genere di prodotto rinunciando a esercitare una piena responsabilità e restituendo nelle mani di pochissime persone il potere di dare un indirizzo al futuro tecnologico dell’umanità.
Si apre dunque l’urgenza per la filosofia di interrogarsi sui temi dell’etica in relazione alla tecnologia.
Già Hans Jonas (1903-1993) aveva riformulato i principi dell’etica tradizionale nell’opera Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica del 1979, aprendo prima di ogni altro alla questione della crisi ambientale, invitandoci a un’etica responsabile del vivere. Riscrivendo la massima kantiana aveva infatti affermato: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra; agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità di tale vita» (7).
Ma questo modo di essere nel mondo, che gli autori del metaverso ci stanno proponendo, va nella direzione di una vita autentica? Quanto è etico nei confronti del tempo limitato delle nostre esistenze, e quindi della vita stessa, privarci della possibilità di esperire realmente il vivere nelle sue svariate attività? Così come Hans Jonas sulla questione ambientale quarant’anni fa, anche oggi la filosofia è chiamata a intervenire sul vuoto etico di cui si avvale la costruzione della realtà virtuale e le sue conseguenze.
Che la tecnologia sia qualcosa di eccezionale, che abbia la possibilità di potenziare la natura umana, è indiscutibile.
Così come è indiscusso il fatto che il cambiamento di paradigma generato dalla rivoluzione digitale sia un fenomeno storico irreversibile. Ma è altrettanto vero che tutto ciò genera in noi una sensazione ambivalente, di attrazione e repulsione. Potersi immergere totalmente in una esperienza virtuale può essere elettrizzante. Ma a quale prezzo per le nostre esistenze e per il futuro dell’umanità?
Nell’impossibilità di trovare al momento risposte e soluzioni categoriche, ecco le parole di Zygmunt Bauman rilasciate in una delle sue ultime interviste in Italia, che ci lasciano aporeticamente un interrogativo implicito: «L’unica chiave per un’esistenza sostenibile in futuro sarà trovare un reale equilibrio fra la vita online e quella offline» (8).
(1) P. Quéau: Intervista RAI Filosofia, disponibile online su: https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Philippe-Qu233au-realt224-e-virtualit224-669f886b-e8e8-4211-abeb-bf133b9c87f6.html
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008 pp. 63-64.
(5) Ivi, p. 64.
(6) Ivi, p. 65.
(7) H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main 1979, tr. it. Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, p. 16.
(8) Z. Bauman: Intervista al Festival della Mente Sarzana 2011, disponibile online su https://www.youtube.com/watch?v=IwwsdLjRIJg&t=1857s
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