La colonialità del genere: la voce di Maria Lugones

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Mi interesso all’intersezione di razza, classe, genere e sessualità per comprendere la preoccupante indifferenza che gli uomini – e soprattutto, quello che è ancora più importante per le nostre lotte, gli uomini che sono stati “razzializzati” come inferiori – manifestano verso le violenze sistematiche inflitte alle donne di colore (1). 

È con queste parole che Maria Lugones (1944-2020), filosofa argentina che ha costituito una figura capitale per i movimenti di resistenza sviluppatesi in America Latina contro ogni forma di dominio, introduce alla sua teoria della colonialità del genere, frutto di una rilettura in chiave critica della nozione di “colonialità di potere”, elaborata dal sociologo peruviano Anibal Quijano sulla scia del contributo delle cosiddette femministe del Terzo Mondo. Se l’analisi strutturale di Quijano mette efficacemente in evidenza l’intersezione delle categorie di genere e di razza per la comprensione della struttura sociale del capitalismo, definita dal desiderio di controllo sulle aree principali dell’esistenza umana, quali il sesso, il lavoro, l’autorità collettiva e la soggettività/intersoggettività, il suo contributo resta ancora incatenato a una prospettiva eurocentrica e patriarcale.

Certo, l’invenzione della nozione di razza è un elemento centrale nei rapporti di potere instauratisi a partire dall’arrivo dei conquistadores in America, secondo una rilettura storica che anticiperebbe di circa un secolo la nascita del capitalismo.


Tuttavia, questo quadro argomentativo pecca nel fornire una spiegazione soddisfacente all’evidente classificazione degli esseri umani sulla base del sesso.


Quijano farebbe coincidere il genere con l’organizzazione del sesso, delle sue risorse e dei suoi prodotti, postulando quindi una sua derivazione biologica, che solo in seguito viene deformata dalla società attraverso il filtro dei rapporti di potere. In altre parole, la descrizione del genere messa in luce da Quijano «presuppone il dismorfismo sessuale, l’eterosessualità, la distribuzione patriarcale del potere (2)». 

Per estendere la teoria di Quijano al di là dei limiti che uno sguardo iperbiologizzato porta inevitabilmente con sé, Lugones prende come punto di riferimento gli studi e le indagini sociologiche portate avanti dalla ricercatrice Paul Gunn Allen (1939-2008), a dimostrazione dell’esistenza di tribù amerinde il cui assetto sociale non è definito da una divisione sessuale del lavoro imposta dalla prospettiva binaria del genere. per la maggior parte, queste tribù erano infatti «matriarcali, riconoscevano più di due generi, una possibilità di “terzo” genere e l’omosessualità in maniera positiva (3)».


L’interesse di Lugones per queste ricerche non implica tanto una rivendicazione dell’esistenza di società ginecratiche in un passato relativamente lontano o nel presente, ma mira a sottolineare il legame tra la produzione del sapere in ogni dominio dell’esistenza e il sistema capitalista eterosessista.


Il punto su cui Lugones insiste è il carattere fittizio imposto del paradigma sessuale binario, essendo questo fondato sulla costruzione sociale delle categorie uomo/donna, la cui introduzione nelle tribù amerinde ha aperto la strada alla loro sottomissione e, in un secondo momento, alla subordinazione delle donne colonizzate agli uomini non bianchi attraverso la complicità di questi con gli Occidentali. 

Lugones instaura quindi un dialogo tra il pensiero di Quijano e il contributo del femminismo nero per mostrare la necessità di un’analisi complementare volta alla comprensione della colonialità del potere attraverso il sistema del genere. «Comprendere il ruolo del genere nelle società precoloniali è altrettanto essenziale per misurare l’estensione e l’importanza del sistema del genere nella distruzione delle relazioni comunitarie, delle relazioni egualitarie, del pensiero rituale, della presa di decisioni collettive, dell’autorità collettiva e delle economie (4)».

È in seno a questo sistema moderno/coloniale, infatti, e nel corso della storia dei femminismi del XX secolo, che solo le donne bianche e borghesi sono considerate come donne, ponendo la femminilità bianca come paradigma universale per condurre una lotta contro l’oppressione – una lotta che non ha tuttavia messo in questione nessun altro tipo di oppressione di genere e che ha costruito la propria agenda politica su questa specifica categoria di donna in difesa degli interessi borghesi. Le donne razzializzate hanno quindi subito un processo di esclusione e di animalizzazione, essendo loro «comprese come animali nel senso profondo di “senza genere”, sessualmente segnate come femmine, ma senza le caratteristiche della femminilità (5)»: mentre le donne bianche sono viste come deboli, fragili e sessualmente passive, le donne colonizzate al contrario sono «descritte sulla linea dell’aggressività sessuale e della perversione, come abbastanza forti per eseguire qualsiasi tipo di lavoro (6)»

L’autrice mostra infine la portata di quello che lei denomina “sistema del genere moderno/coloniale”: risulta essere uno strumento di dominio fondato sulla costruzione dell’autorità collettiva in tutti gli aspetti della relazione capitale-lavoro e sull’imposizione del paradigma eterosessista come criterio di classificazione degli esseri umani, secondo uno schema intersezionale di razza, genere e classe.


Sarà quindi a partire dalla presa di consapevolezza di questo suo carattere fittizio che le prospettive di lotta potranno finalmente affermarsi per liberarci dalla prigione coloniale del capitalismo eurocentrico ed eteropatriarcale. 






(1) Lugones, Maria (2008). The Coloniality of Gender, in Worlds & Knowledges Otherwise, 2 (Spring), 1-17, traduzione mia. 

(2) Ibidem. 

(3) Ibidem. 

(4) Ibidem.

(5) Ibidem.

(6) Ibidem.