Negli ultimi tempi le politiche di destra non hanno perso occasione di utilizzare la retorica della “teoria gender” nei loro discorsi contro la famigerata “lobby lgbt”, come se quest’ultima fosse una setta perversa pronta a sfasciare la famiglia tradizionale a favore di un sistema “contro natura”. Aldilà del fatto che si tratta di una propaganda che – in quanto generatrice di paura – stimola l’odio e la violenza, le domande che qui occorre porsi sono: che cos’è il gender? Cosa significa “tradizionale”? E poi, è possibile definire cosa è naturale e cosa non lo è?
Il sistema sesso-genere
Nel 1975 è stata l’antropologa e ricercatrice statunitense Gayle Rubin a introdurre il costrutto sesso-genere all’interno dell’ambito accademico, dando vita a un dibattito inedito sul concetto di genere. Rubin pone in rilievo come il dato biologico viene socialmente trasformato in un dato binario in cui il maschile occupa una posizione di privilegio. Come affermano Piccone Stella e Saraceno, si tratta di «quell’insieme di processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti con i quali la società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro» (1). Di conseguenza, siamo noi a porre modelli restrittivi e limitanti a entrambi i sessi, senza la possibilità di pensare alternative al dualismo maschio-femmina e sacrificando il potenziale individuale.
Come è evidente, quando si parla di genere non è possibile aggrapparsi alla “natura”.
Ciò con cui abbiamo a che fare non sono altro che categorizzazioni, prodotti arbitrari della società. Alcuni sono figli di una tradizione millenaria (come l’assegnazione della donna alla sfera privata e dell’uomo a quella pubblica); altri – invece – hanno iniziato a far parte della nostra società solo recentemente (come la famiglia mononucleare o meglio nota come “famiglia tradizionale”, la quale in realtà ha iniziato a diffondersi con la rivoluzione industriale), anche se li pensiamo appartenenti da sempre al nostro costume.
Il sistema sesso-genere si fonda in particolare su quattro categorie di “universali culturali”: sesso, identità sessuale, orientamento sessuale, ruoli di genere. Questi sono costrutti sociali definiti dal contesto culturale in cui si formano, i quali, a loro volta, per mezzo del principio di causa ed effetto – erroneamente divenuto sinonimo di “naturale” – si legano ad altrettante categorie della cultura occidentale: binarismo, cisnormatività, eteronormatività, naturalizzazione. Il sistema eteropatriarcale prevede quindi l’esistenza di due soli generi, che vedono il loro fondamento negli organi genitali di appartenenza in base ai quali vengono associati gusti, peculiarità e tratti caratteriali e comportamentali.
Sesso e genere: tra natura e cultura
Quello che noi chiamiamo “sesso biologico” non è altro che un lessema che distingue le differenze bio-fisiologiche degli esseri portatori della coppia cromosomica XX da quelli portatori della coppia cromosomica XY. Si tratta dunque di una nozione che definisce il patrimonio genetico, il funzionamento fisiologico e riproduttivo che caratterizza gli esseri umani, e diamo per scontato che a partire dal patrimonio genetico si sviluppino degli organi riproduttivi coerenti. Tuttavia, esistono casi diversi. Sappiamo infatti che sono possibili anche sviluppi fisici non binari, come l’intersessualità: soggetti aventi entrambi gli apparati o un patrimonio genetico misto pur possedendo organi riproduttivi di uno dei due sessi. Nella società occidentale questa possibilità non è contemplata e si cerca di porre rimedio al terrore che suscita ciò che fuoriesce dal noto, sottoponendo queste persone a interventi talvolta pericolosi sin da neonati.
D’altra parte, il “genere” non ha nulla a che fare con i caratteri biologici.
Il concetto di genere evidenzia il processo di costruzione di quelle che sono le tipizzazioni sociali, culturali e psicologiche delle differenze tra maschi e femmine: essere nati con un certo corredo biologico significa dover aderire a specifiche sovrastrutture socialmente condivise. In ogni società umana, in qualsiasi tempo e luogo, essere natǝ con delle ovaie piuttosto che con dei testicoli assume dei significati sotto l’ottica del genere, e, quindi, di tipizzazioni. In tal senso il concetto di genere si potrebbe considerare come l’universale culturale per eccellenza: costruzioni universali che tuttavia prevedono una forte differenziazione a seconda dell’epoca e della latitudine geografica. È evidente, dunque, come sia pericoloso e ingannevole utilizzare l’argomento del “secondo natura” e come questo sia in realtà traducibile con “cultura”, che in quanto tale è passibile di evoluzione.
Pertanto, se siamo abituatǝ ad associare l’aggressività come un elemento caratteriale prettamente maschile, o la sensualità come una caratteristica unicamente femminile, non è a causa di dati biologici stabiliti da madre natura, ma è un problema culturale. E intendere la cultura come un qualcosa di già dato, scontato – e, dunque, naturale – senza lo sforzo di porla in discussione è una mossa insidiosa di cui stiamo subendo gli evidenti effetti repressivi.
Mi sembra questo il giusto luogo per ricordare la lezione di Judith Butler: il genere non è qualcosa che nasce in noi e che vivrà in noi in maniera fissa, bensì è la riproduzione di un discorso ripetuto su che cosa significa essere uomo o essere donna. In sostanza, è una performance: una ripetizione di gesti, modi e forme che appartengono a un genere e nel momento in cui vengono assunti prevedono l’approvazione dell’ambiente societario in cui siamo inseritǝ (2).
Categorizzazioni e nuove prospettive: il genere
Quello del genere è allora un costrutto definito socialmente da vari contenuti che delineano prototipi. Ogni costrutto si fonda su una serie di definizioni che ci permettono di comunicare con glǝ altrǝ, di riconoscerci e di comprenderci reciprocamente. Quando le categorizzazioni pervadono l’ambito umano – come quella del genere – sorge tuttavia una serie di problematiche. Restringere le persone a delle categorie socialmente definite e riconosciute soffoca ogni tipo di individualità attraverso la restrizione (se non eliminazione) della ricerca di una propria identità. Pensare il genere come una categoria chiusa, statica e irremovibile significa reprimere l’auto definizione e la realizzazione individuale in un unico modello prestabilito, incasellandolo in un orizzonte che non prevede alternative. Chiarificatrici sono in questo caso le parole di Nietzsche, il quale nel 1878 discuteva di morale e costume quando di disforia di genere non si parlava, ma il concetto che ha espresso è lucidamente calzante:
«Un importante genere di piacere […] nasce dall’abitudine. Ciò che è abituale, lo si fa più facilmente, meglio dunque più volentieri. […] Un costume con il quale si può vivere viene definito salutare, giovevole, in contrapposizione a tutti i nuovi tentativi non ancora sperimentati. Il costume è dunque l’unione del piacevole e dell’utile, e inoltre non richiede riflessione. […] Così pure una collettività di individui costringe ogni singolo allo stesso costume. Qui sta il paralogismo: siccome ci si trova bene con un costume o per lo meno mediante esso si fa valere la propria esistenza, questo costume è necessario, esso viene considerato, infatti, come l’unica possibilità per trovarsi bene; sembra che solo da esso derivi il benessere della vita» (3).
Rompiamo dunque le catene, diamo spazio alla forza creativa, liberiamo le alternative e uniamoci nel riconoscere quelle già esistenti. Questa non è «l’unica possibilità per trovarsi bene», tanto meno la migliore. Forniamoci pertanto la possibilità di essere diversǝ: di essere autenticamente e spontaneamente noi stessǝ.
(1) S. Piccone Stella, C. Saraceno, Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 7.
(2) J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari-Roma, 2017.
(3) F. Nietzsche, Umano, troppo umano. Volume primo, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano, 2021, p. 75.
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