Oppenheimer al bivio dell’umanità

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«Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi».(1)

Questa la celeberrima frase che accompagna il nuovo film di Nolan, in proiezione da questa estate, che racconta la storia del fisico e teorico J.R. Oppenheimer, del suo progetto Manhattan e della sua invenzione: la bomba atomica. 

A rendere ancor più significativa la frase è che sia stato Oppenheimer stesso a pronunciarla in una delle prime apparizioni pubbliche dopo lo sgancio delle due bombe atomiche sul Giappone. 

Del resto, la solennità di questa affermazione si deve soprattutto al suo offrirsi come sintesi della storia che la pellicola cerca di restituire. Muovendosi tra scene in bianco e nero, quelle più oggettive e di ricostruzione, e quelle a colori, più introspettive e personali, lə spettatorə è guidatə in un viaggio aperto e sordido, lungo le fila della storia più intricata e decisiva dell’umanità. 

Lo sgancio della bomba atomica segna una frattura insuperabile per la storia del Novecento, non tanto per le conseguenze belliche e politiche, quanto per le implicazioni etiche e antropologiche che tale tecnologia porta con sé. 

Se, infatti, a muovere il progetto di Oppehneimer era la volontà di costruire un’arma in grado di accelerare la conclusione del secondo conflitto mondiale, disincentivando il ricorso alle armi attraverso la “minaccia atomica”, nei fatti l’uso della bomba fu da considerarsi quasi inconcludente.

Quando “Gadget”, il primo prototipo di bomba atomica, fu testato il 16 luglio 1945, Hitler era già stato fermato dalle forze alleate, suicidandosi nel suo bunker nell’aprile dello stesso anno, l’Italia era già stata liberata e restava solo il Giappone con cui negoziare una resa.

Resta, quindi, il dilemma morale, l’uso spietato della tecnica a fini autodistruttivi e le conseguenze di una guerra che ha segnato, per tante ragioni, una nuova antropologia e una discontinuità storica. 

Il più grande interprete degli eventi legati al “caso Oppenheimer” è senza dubbio Günther Anders, filosofo e scrittore tedesco, il cui pensiero ruota attorno agli interrogativi etici e morali che hanno fatto seguito allo sgancio della bomba atomica.

Secondo Anders, i fatti di Hiroshima e Nagasaki portano l’umanità a prendere coscienza di essere giunti verso la possibilità reale di una condizione estrema: quella dell’autodistruzione.

Se da sempre la guerra pone gli individui dinanzi alla possibilità della morte, la guerra atomica estremizza tale eventualità, rendendo gli effetti mortiferi tanto gravi da compromettere l’intera storicità dell’uomo: a morire, quindi, non sono gli individui, ma l’umanità tutta nel suo concetto stesso.

Gli effetti devastanti e catastrofici dell’ordigno atomico sono infatti così smisurati da portare ad un vero e proprio mutamento antropologico:

«se l’uomo sopravvivesse, nonostante tutto, non sarebbe più un essere storico, ma un miserevole residuo: natura contaminata nella natura contaminata»(2).

L’umanità, dunque, si trova inerte dinanzi alla catastrofe, una tragedia di cui è essa stessa artefice. 

Ma come è possibile che l’umanità si sia spinta verso l’autodistruzione? E soprattutto, come è possibile, dinanzi alla preannunciata devastazione di tutto ciò che è umano, restare impassibili, quasi non rendersene conto?

Entrambe le domande, scrive Anders, hanno un’unica radice. Da un lato, le scienze e le tecniche, con le loro scoperte, ci portano verso possibilità sempre più ampie. Dall’altro lato, tuttavia, tutto ciò che ci troviamo a maneggiare quotidianamente ci appare sempre più sconosciuto e, accanto alle infinite possibilità, si aprono ancora più smisurate imprevedibilità.

In poche parole: la tecnica si è spinta verso limiti fino a quel momento inimmaginabili, ma le conseguenze di tali innovazioni restavano, allora come oggi, all’umanità celate, quasi non si fosse più capaci di prevedere le conseguenze di ciò che si sta compiendo.

Ed è questa non calcolabilità delle conseguenze che, scrive Anders, ci fa restare immobili, ciechi dinanzi all’Apocalisse.

L’umanità, cioè, da portatrice di conoscenza e di progresso, rimane antiquata, sempre superata dalle cose che produce, dalle sue conoscenze, dai progressi scientifici e tecnologici che la sorpassano, andando oltre la sua controllabilità.

Questo dislivello, che Anders chiama prometeico – e coincidenza vuole che il film si apra con una citazione proprio dal mito di Prometeo -, si mostra come un vuoto, una «discrepanza tra quello che riusciamo a produrre e quello che siamo in grado di immaginare». (3)

Come Prometeo, infatti, l’umanità ha rubato il fuoco di una conoscenza smisurata, capace di portare alla luce artefatti e macchine sempre più sofisticate.

E il prezzo di tale conoscenza è l’esser gettati indietro da ciò che sappiamo produrre e ciò che non possiamo più controllare.

Ma c’è una soluzione a questo dislivello? O la nuova umanità atomica è condannata a restare in balia della sua tecnica?
Quello che Anders auspica, con la sua filosofia della catastrofe, è un risveglio morale, una presa di coscienza dinanzi alle possibilità che ogni sbalzo in avanti tecnologico porta con sé.

Colmare il vuoto di immaginazione, ri-impossessarsi della capacità di prevedere, porre un limite alla cieca distruzione che una tecnica senza pensiero critico porta con sé. 

Ripensarsi come capaci di sapere ma anche di responsabilità: questa, in definitiva, è la soluzione che l’umanità dopo la catastrofe deve operare, un’umanità che, dinanzi all’esser diventata morte, distruttrice di mondi ha il dovere morale di assumersi.  

  1. Citazione dal Bhagavadgita, qui un estratto dell’intervista originale a J. R. Oppenheimer che pronuncia queste parole: https://youtu.be/pqZqfTOxFhY 
  2. G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluziome industriale, Bollati-Bollinghieri, Torino 2003. p. 272
  3. Ivi, p. 74

Cillian Murphy in Oppenheimer COURTESY OF UNIVERSAL PICTURES. La foto di copertina è un’immagine ufficiale di Oppenheimer Il copyright della suddetta è pertanto di proprietà del distributore del film, il produttore o l’artista. L’immagine è stata utilizzata per identificare il contesto di commento del lavoro e non esula da tale scopo – nessun provento economico è stato realizzato dall’utilizzo di questa immagine. / This is an official image for Oppenheimer. The image copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist. The image is used for identification in the context of critical commentary of the work, product or service. It makes a significant contribution to the user’s understanding of the article, which could not practically be conveyed by words alone. No money were made by the use of this image