L’audacia e la grazia delle donne samurai

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Hana wa sakuragi, hito wa bushi.
“Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini [e le donne, ndr] il guerriero”.

– Detto popolare giapponese.
Avete letto bene: alla classe sociale dei samurai appartenevano anche le donne.

Erano chiamate onna bugeisha, letteralmente “maestre delle arti marziali”, e come gli uomini erano tenute a rispettare il codice d’onore del Bushido, l’insieme delle regole morali della casta guerriera.

Esso comprende, infatti, le sette virtù morali: Gi, la giustizia; Jin, l’empatia; Rei, la gentilezza; Chugi, il dovere; Meyo, l’onore; Makoto, la sincerità; infine Yu, il coraggio.

Legate al Bushido sono anche nozioni per la disciplina, – le cinque abitudini di igiene, giusto esercizio, giusto riposo, alimentazione equilibrata e attitudine al pensiero positivo – e la definizione dei tre stati della coscienza: Zanshin, la mente consapevole; Fudoshin, la mente equilibrata, e Mushin, la mente vuota. In particolare, “vuota” era intesa come priva di ogni pregiudizio.

Nel caso le guerriere – come anche i samurai uomini – fossero venute meno alla parola data o rischiassero di perdere l’onore – ad esempio rischiando di morire per mano nemica -, erano tenute a compiere il seppuku, il suicidio d’onore: un rito ben codificato, un taglio nell’addome con cui poter liberare la propria anima.

Anche nell’Occidente antico il tema del suicidio gode di particolare importanza, alle volte con accezione di condanna, altre di diritto: Platone, per bocca di Socrate, risponde nel Fedone a Cebete:

«Vi sono degli uomini che desidererebbero morire piuttosto che vivere, e tuttavia non possono procurarsi questo beneficio con le loro stesse mani se non vogliono macchiarsi di empietà […]. A questo proposito c’è una frase nei Misteri, che dice in una sorta di prigione siamo rinchiusi noi uomini e non è lecito liberarsi da soli, né evaderne. Una frase per me tanto profonda quanto oscura. Ma una cosa è tuttavia chiara, Cebete, che cioè gli dei si prendono cura di noi e noi uomini siamo un po’ come un loro possesso» (1).

Al contrario, la tarda filosofia stoica, quella di Seneca, predicava il celebre non vivere bonum est, sed bene vivere: non è la vita il bene in sé, ma è il bene vivere bene. Prelude quindi le future teorie sulla qualità della vita, nonché l’annoso dibattito bioetico che contrappone alla qualità la sacralità della vita.

Allo stato di donna samurai si accedeva per filiazione, in quanto figlia unica di un samurai, o contraendo un matrimonio con uno di loro.

La moglie del samurai, infatti, doveva essere non solo istruita, ma anche addestrata nell’uso delle armi: era a lei che spettava il compito di difendere i membri e l’onore della famiglia in assenza del marito. Sebbene, dunque, sia una presenza a tratti alternativa a quella maschile, si nota nel ruolo delle onna un superamento del dettato confuciano più tradizionale, per cui la figura femminile è del tutto subalterna a quella maschile.

D’altronde, se sono evidenti le influenze di confucianesimo e buddhismo nel bushido, è anche vero che alcuni principi hanno visto alcuni mutamenti.

Le armi con le quali la onna bugeisha combatteva, sebbene l’immaginario collettivo occidentale si figuri con tutta probabilità una katana, la celebre spada dei samurai, erano l’arco e le frecce e soprattutto la naginata. Maneggiavano abilmente questa lancia, con una lama ricurva, costruita secondo il principio delle leve, che permetteva di sfruttare a proprio vantaggio la forza dell’avversario.

Le guerriere samurai erano anche abili cavallerizze, ma all’occorrenza non disdegnavano lo scontro frontale con il pugnale: il kaiken. Il pugnale delle onna bugeisha, oltre a una lama affilatissima, aveva un vezzoso manico con preziose decorazioni, che spesso ornavano anche i loro abiti o l’acconciatura.

Le guerriere indossavano lo yoroi, ovvero la tradizionale armatura giapponese, ma senza il kabuto, l’elmo. La loro femminilità non era infatti nascosta ma esaltata: particolare cura veniva dedicata, persino prima della battaglia, ai capelli e alla pelle, che per essere candida veniva truccata con la polvere di riso. Una onna bugeisha non doveva solo combattere con valore e coraggio al pari di un uomo, ma farlo con grazia ed eleganza.

La prima Onna bugeisha di cui abbiamo testimonianza è l’imperatrice Jingu.

La riguarda una leggenda: pare che alla morte del marito, nel 209 d.C., abbia attraversato il mar del Giappone e conquistato la Corea. Per questa ragione, è stata la prima donna giapponese a comparire in una banconota, nel 1878.

Simbolo di avvenenza e fierezza fu sicuramente Tomoe Gozen, le cui gesta e bellezza vengono cantate anche in Heike Monogatari, poema epico paragonabile alla nostra Iliade. Gozen si fece onore nella guerra Genpei del XII secolo nelle fila del clan Minamoto, contro quello Taira. Minamoto, samurai a capo del clan omonimo, la teneva in alta considerazione, non solo in quanto audace guerriera, ma anche per le sue abilità di stratega e comandante.

Alla narrazione delle gesta di Tomoe si sono ispirate altre note guerriere, come Ohori Tsuruhime, che difese l’isola di Omishima, e Nakano Takeko, che fu a capo di un reparto di venti donne.

La veridicità della presenza femminile nelle armate è provata da un esame del DNA su centocinquanta corpi che risalgono alla battaglia del 1580 tra i clan di Takeda Katsuyori e Hojo Ujinao: ha rivelato la presenza di trentacinque guerriere.

Guerriere la cui grazia poteva cadere in fretta come i fiori del ciliegio.

  1. Platone, Fedone, trad. N. Marziano, Garzanti, Milano, 1975, 62a.

Bibliografia

Musashi Miyamoto, Il libro dei cinque anelli, Giunti, Firenze, 2022.

Inazo Nitobe, Bushido, Giunti, Firenze, 2021.

Yamamoto Tsunetome, Hagakure. Il codice segreto dei samurai, Giunti, Firenze, 2023.