Terra libera, donne libere. La prospettiva del femminismo palestinese
La lotta per la liberazione della Palestina ha una lunga storia, le cui radici possono essere fatte risalire ai primi anni del Novecento quando gli arabi palestinesi, dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano nella Grande Guerra, si trovarono a dover fronteggiare il mandato britannico sui loro territori (1).
La resistenza che ne seguì fu articolata e complessa e vide, a discapito di quanto gran parte della storia ufficiale tende a ricordare, una larga partecipazione della componente femminile.
Le donne, infatti, furono tra le prime a fornire mutuo aiuto e soccorso, organizzandosi in gruppi dal carattere sociale volti a dare sostegno alla popolazione (2).
Inizia così la storia dell’attivismo femminile palestinese, che nel corso degli anni ha assunto declinazioni differenti configurandosi sempre più come un movimento autonomo e indipendente capace di cogliere l’intersezionalità che unisce la lotta decoloniale e la liberazione delle donne (3).
In un quadro politicamente complesso come quello in cui si trovava il Medio Oriente negli anni Venti del secolo scorso – caratterizzato dal proliferare di nazionalismi che volevano l’indipendenza dalle potenze imperialiste occidentali – le donne palestinesi chiedevano di prendere parte al processo di liberazione e di ottenere la loro presenza sullo scacchiere geopolitico; è così che nel 1920 nasce la Palestinian Arab Womens Union.
L’obiettivo primario dell’organizzazione era di dare alle donne maggiore libertà e capacità di azione, ponendosi anche come erede e continuatrice delle prime rivendicazioni delle donne palestinesi che già alla fine dell’Ottocento reclamavano il pieno accesso all’istruzione, consapevoli che la liberazione nazionale è possibile solo se tiene al suo interno la questione dell’emancipazione femminile (4).
La lotta femminile continua per tutti gli anni Trenta con forme di partecipazione alla resistenza armata fino a giungere al 1948, anno della Nakba (tragedia), che vede le donne al fianco degli uomini nel fronteggiare il processo di colonizzazione da parte del neonato stato di Israele.
La Nakba segna certamente un punto cruciale nella storia palestinese: si calcola che almeno 500 villaggi vennero distrutti e 700.000 persone costrette all’esodo: in breve si assiste a un vero e proprio processo di pulizia etnica (5).
Inoltre, la diaspora che ha inizio nel 1948 porta alla ridefinizione del concetto di “spazio” per il popolo palestinese (6).
Costretto a lasciare le proprie terre e non potendo più lottare dentro al proprio territorio, è la casa, il focolare domestico variamente inteso (può essere l’abitazione in senso stretto ma anche la tenda, la comunità che si forma fuori dai confini della Palestina o un luogo di incontro con altrɜ palestinesɜ forzatɜ a lasciare la terra natia) a divenire il posto privilegiato per organizzare la resistenza e il sumud (7).
In questo contesto, le donne assumono il ruolo di custodi del passato e si fanno carico di trasmettere alle nuove generazioni – nate e cresciute nella diaspora – la storia del loro popolo, contribuendo alla formazione dell’identità palestinese (8).
Si assiste al nascere di una forte spinta nazionalista la cui principale conseguenza è l’accentramento della lotta e della resistenza nelle mani di gruppi politici e militanti prettamente a guida maschile: ciò porta alla marginalizzazione dei movimenti femminili e contribuisce a creare un’immagine della donna solo come “madre dei martiri”, la cui prole deve essere sacrificata per il bene della patria.
Si configura pertanto la necessità per le donne palestinesi di iniziare a pensare anche a una resistenza “interna”, cercando di far fronte tanto all’occupante quanto all’immaginario maschile della liberazione e alle sue ripercussioni (9).
La sfida maggiore per le donne arriva probabilmente tra il 1987 e il 1988, ovvero gli anni dell’ascesa di Ḥamās, del ritorno alle tradizioni e dell’uso del velo (10).
Le palestinesi si trovano a dover far fronte, ancora una volta e in modo ancor più evidente, alla subordinazione a cui sono costrette e all’impossibilità di autodeterminarsi. Tale condizione rispecchia in modo chiaro l’intersezionalità dei diversi assi di oppressione che le donne palestinesi si trovano a vivere: subalterne all’interno del loro Paese a causa del sessismo della società che le relega a un mero ruolo riproduttivo e di cura e, allo stesso tempo, parte di un popolo colonizzato (11).
Questa tensione, già ben nota alle donne palestinesi nel corso del Novecento, è emersa in modo più radicale nel 2019, anno in cui è nato il movimento femminista Tal’at (12).
A differenza delle organizzazioni femminili precedenti, Tal’at cerca di tenere insieme il femminismo radicale e la liberazione nazionale, provando a superare una visione dicotomica e polarizzata.
Il nuovo movimento femminista è stato il primo a parlare apertamente degli abusi domestici affermando con forza che non vi è alcuna contraddizione tra il desiderio di libertà palestinese e la lotta per i diritti delle donne (14).
Tal’at rende esplicita la forte connessione tra le due forme di resistenza denunciando, tra l’altro, il meccanismo perverso alla base della colonizzazione sionista.
Infatti, l’oppressione sessista che la cultura palestinese esercita sulle donne non fa altro che avvalorare Israele nella sua campagna coloniale, legittimandolo a presentarsi come la sola democrazia del Medio Oriente e dunque, in un rovesciamento rocambolesco, come l’unica potenza capace di liberare le donne palestinesi dalla società patriarcale in cui vivono.
In tal senso, quindi, è sicuramente lecito affermare che Tal’al, oltre a portare nuove prospettive sulla questione palestinese, sostiene la necessità che le donne recuperino la loro agency – non cedendo in alcun modo passivamente a decisioni che giungono da altri gruppi organizzati – ma soprattutto dimostra che le donne non devono in alcun modo scegliere tra le due battaglie: il movimento di liberazione nazionale deve tenere al suo interno la questione femminile perché non ci può essere Palestina libera senza donne libere.
(1) Cfr. Kenneth S. W., The Land Question in Palestine, 1917–1939, University of North Carolina Press, 1984.
(2) Cfr. C. Dalla Negra, Palestina. Storia, terra, lotta di donne, in “DWF, Palestina. Femminismi e resistenza”, 1-2 (117-118), 2018, pp. 11-25.
(3) Facciamo qui riferimento esclusivamente alla resistenza delle donne così come si è configurata nel processo storico; tuttavia, non possiamo non ricordare che anche altre soggettività marginalizzate come la comunità LGBTQIA+ e queer palestinese hanno preso parte alla lotta e continuano a farlo sia in Palestina sia nella diaspora (a riguardo: WAQFET BANAT. Storie di donne lesbiche palestinesi, supplemento a DWF 117-118, 2018).
(4) C. Dalla Negra, ivi, p. 15. Inoltre, si ricorda che nel 1929 si tenne il primo Congresso delle Donne Arabe con lo scopo di discutere delle problematiche legate alle condizioni delle donne.
(5) Kenneth S. W., cit.
(6) Cfr. Jasbir K. Puar, Spatial Debilities: Slow Life and Carceral Capitalism in Palestine, in “The South Atlantic Quarterly”, 120, 2, 2021.
(7) Sumud è una parola araba di difficile interpretazione. Generalmente viene tradotta con “resilienza” o “resistenza” ma, nonostante abbia a che fare con l’azione, non si riferisce in alcun modo a una forma di lotta armata (https://www.palquest.org/en/highlight/33633/sumud)
(8) C. Dalla Negra, cit, pp. 16-17. A questo proposito è bene ricordare che è proprio in seguito alla diaspora che verrà fondata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1964. L’anno dopo viene istituita l’Unione Generale delle Donne Palestinesi, primo gruppo politico di donne riconosciuto.
(9) Con lo scoppio della guerra dei Sei giorni nel 1967 le donne hanno la possibilità di riappropriarsi di uno spazio politico partecipando ad azioni militari e venendo anche arrestate come è accaduto alle sorelle Asmeah e Aisha Odeh (C. Dalla Negra, cit, p. 17).
(10) Ḥamās è un’organizzazione politica palestinese islamista, sunnita e fondamentalista, nata durante la Prima Intifada (1987-1993) (https://www.treccani.it/enciclopedia/hamas/).
(11) In questo discorso deve necessariamente essere ricordato che anche i movimenti femministi occidentali hanno contribuito a rendere le donne palestinesi “subalterne” nella misura in cui hanno, forse inconsciamente, riprodotto uno sguardo colonizzatore e orientalizzante nei loro confronti trattandole non come sorelle e alleate nella lotta ma come soggetti passivi da dover liberare.
(12) Tal’at nasce in seguito al femminicidio della ventunenne Israa Ghrayeb, il 22 agosto 2019, per mano della sua famiglia dopo che la giovane aveva postato sui social una foto con il suo fidanzato il giorno prima del loro matrimonio. L’accaduto ha sollevato proteste di donne in tutto il paese (F. Stagni, When Feminism Redefines National Liberation: How Tal’at Movement brought Feminism to the Core of the Palestinian National Liberation Struggle, in “Critical Sociology”, 1-19, 2023. pp. 1-2).
(14) Cfr. F. Stagni, ivi, p. 3.
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