Nativi della Terra

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Il 9 agosto di ogni anno ricorre la giornata mondiale dei popoli indigeni.

Con questa fetta di popolazione condividiamo la Terra ma spesso restiamo indifferenti davanti agli abusi che essi subiscono, o alla loro stessa esistenza. Eppure la minaccia di questa alterità, di questo altrui apparentemente così distante dalla nostra civilissima società, sembra non toccarci troppo, quasi come se ci fossimo abituati o come se non li considerassimo poi altrettanto umani.

Ho pertanto deciso di chiedere qualche informazione all’antropologa Martina Caridi, per capire meglio chi sono queste popolazioni e perché non sia giusto chiudere gli occhi davanti a chi calpesta, sfrutta, uccide.


Anzitutto vorrei che delineassimo chi sono i popoli indigeni e dove si trovano ora, nel 2019.


I popoli indigeni sono quei popoli che, fin da quando si ha conoscenza della loro esistenza, hanno sempre abitato in un determinato luogo. Questa è la definizione più comunemente utilizzata, ma bisogna fare un passo indietro e collegare il termine indigeno a un periodo storico ben noto: il colonialismo, durante il quale le potenze europee progettarono l’espansione del loro impero attraverso l’occupazione di vasti territori, come l’Africa o l’India, incontrando e assoggettando coloro che vi avevano sempre abitato, appunto gli indigeni, coi quali, fino ad allora, non si avevano ancora avuti rapporti di alcun genere.

Sorprendentemente, grazie ai dati forniti da enti preposti alla tutela dei diritti dei popoli indigeni, sappiamo che questi sono tutt’ora presenti in America (es. i Kawahiva in Brasile), in Africa (es. i Boscimani in Botswana), in Asia (es. Sentinelesi in India) e Oceania (es. Aborigeni Australiani in Australia).


Come sono strutturate le società indigene?  


Partiamo dal presupposto che ogni società ha una propria struttura e soprattutto un proprio modo di interpretarla ma, in generale, sono tutte composte da legami che tendono a creare una comunità avente al suo interno diverse sfaccettature, come l’economia, la politica, la religione, per citarne alcune.

Per quanto riguarda le popolazioni indigene, il discorso diviene molto più ampio, poiché la loro struttura è legata alla discendenza, quest’ultima serve per sottolineare l’appartenenza sociale dei vari membri, e può essere di tre tipologie: patrilineare, data esclusivamente dal sesso maschile, matrilineare, data solo dal sesso femminile o cognatica, data da entrambi i sessi.

Quindi, da un punto di vista teorico, è fondamentale ricordare che alla base di tutto vi sono le forme di parentela, che l’antropologo Ugo Fabietti definisce come «la relazione che lega degli individui o sulla base della consanguineità o per via matrimoniale». Ciò sta a significare che le società, compresa la nostra, godono di proprie norme, regole o concezioni che hanno la funzione di rappresentare il modo in cui viviamo e, in particolare, chi siamo.


Le malattie hanno rappresentato da sempre un grande problema nel contatto con le altre civiltà (Penso ad esempio al testo di Jared Diamond “Armi, acciaio e malattie”), ma che rapporto hanno le stesse con questa minaccia? 


Certamente violenza fisica e sfruttamento delle popolazione indigene, hanno portato al disfacimento dei piccoli e grandi gruppi ma, come hai detto tu, le malattie trasmesse hanno rappresentato una vera e propria costante nelle vite indigene. Spesso, quando capita di stare poco bene cerchiamo subito il farmaco giusto da assumere, ma lo stesso meccanismo non è presente in tutto il mondo. In particolare nelle tribù, la maggior parte delle malattie viene trattata attraverso la lente della medicina tradizionale, con l’aiuto di personalità ben precise, ad esempio gli sciamani, che abbinando preghiere a diverse tipologie di rituali, cercano di risalire alla causa prima del malessere, spesso ricercata in una possibile maledizione lanciata sul paziente. Vien da sé che, seppur con eccezioni, questa modalità cozza con l’ideale della medicina occidentale a cui siamo abituati.

Ciò può aiutarci a capire perché, tutt’oggi, alcune patologie per le quali esistono terapie efficienti, pesano come una spada di Damocle su determinate popolazioni, ma soprattutto, fare un passo in avanti e considerare le malattie, come insegna Wartofsky, non soltanto attraverso la scienza, ma aiutandoci con la storia e la cultura.


Il tentativo di contatto con le popolazioni indigene da parte degli occidentali allo scopo di studiarne le caratteristiche non rappresenta un grande paradosso dell’antropologia?


Più che paradosso, potrebbe rappresentarne le radici. Se pensiamo alle esplorazioni geografiche nel corso dei secoli, molti furono i materiali raccolti riguardanti le popolazioni incontrate. Sicuramente, gli scopi di questi viaggi non erano in linea con l’approccio antropologico che vi è adesso, cioè lo studio comparato di diverse culture e società, compresa la nostra. Infatti, all’epoca l’avere dei contatti con le tribù indigene era funzionale dal punto di vista dell’espansione occidentale, poiché, conoscendone usi, costumi e religioni, diveniva più semplice assoggettarle sotto il proprio dominio.


Da sempre l’uomo medio non può e non riesce ad accettare ciò che è diverso da lui e tende a far combaciare la diversità con l’inferiorità, in una proiezione sociale andropocentrica e di potere.  Bolsonaro (ndr neopresidente del Brasile) ha minacciato più volte le minoranze etniche presenti sul territorio: si parla di sberleffi e di furto delle risorse grazie a cui questi popoli sopravvivono. Che significato ha tutto questo? Perché l’accanimento verso gli indios è così spietato?


Più che fare passi in avanti verso una convivenza rispettosa e dialogata, se ne stanno facendo parecchi indietro. Se al tempo dei conquistadores e delle missioni evangeliche lo scopo era quello di conformare le popolazioni indigene a quelle dominanti, oggi gli occhi delle potenze mondiali si lanciano bramosi sulle ricchezze delle terre degli indios, senza contare i numerosi investimenti sulle risorse e soprattutto i colossali guadagni che ne conseguono. Quindi, per chi sta ai vertici, è essenziale avere sempre sotto controllo le attività di queste persone, alle quali sempre più è stato tolto, a cominciare dalla gestione dei propri confini territoriali per arrivare a minare qualcosa di molto più profondo, la loro stessa identità.


Per concludere vorrei chiederti perché (oltre all’ovvio motivo dei diritti umani di base) è così importante che tutti noi ci impegniamo a tutelare e rispettare la vita di questi popoli con cui conviviamo.


Credo che la risposta sia già intrecciata a una parola che hai usato, ovvero “conviviamo”. Convivere è forse una delle cose più importanti e difficili da imparare, poiché significa avere rispetto reciproco di tutto ciò che rende una donna o un uomo tali. Se riuscissimo a guardare più in là delle apparenze, ci accorgeremmo che le paure verso il diverso sono ingiustificate, spesso connesse a una forma di pensiero stereotipata assorbita fin dall’infanzia. La nostra società appare sempre più investita da una narrazione mediatica che la rende mutevole, e quindi molto articolata e piena di differenze. La vera sfida è considerare queste diversità non come disuguaglianze, bensì come opportunità per arricchire le nostre quotidianità, imparare ad abbracciare ciò che percepiamo molto lontano da noi, per scoprire, spesso non con poca meraviglia, di avere molte più analogie e comunanze fra i patrimoni tradizionali di quanto non si riesca ancora ad ammettere.

Grazie alla Dott. Martina Caridi

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