Il linguaggio può essere considerato lo strumento più potente che possediamo in quanto esseri umani. D’altronde, citando Heidegger, «Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo.» (1).
Le parole non sono mai mere parole, ma nascondono dietro di sé tutto quello che siamo.
Per convogliare un determinato significato, ne scegliamo una in particolare e, anche se non ce ne rendiamo conto, ci assumiamo un impegno. Un impegno sia nei confronti della singola espressione, che quindi dovremmo essere sempre pronti a difendere, cioè a rivendicare, sia nei confronti delle altre espressioni in essa implicate.
Facendo un esempio, se dico “Oggi è bel tempo”, prendo un impegno anche nei confronti dell’enunciato “C’è il sole”. Perché è importante riconoscere ciò? Perché ci permette di riflettere sulle espressioni che utilizziamo, portandoci ad analizzarle e a capire quali sono gli impegni che comportano. Non essere pronti ad assumerci tali impegni, o ritenere che non sia giusto farlo, comporta il non poter utilizzare quelle espressioni.
Cercando di analizzare i risvolti pratici di questa teoria, elaborata da Robert Brandom nel suo saggio Articolare le ragioni: un’introduzione all’inferenzialismo (2), pensiamo a un’espressione molto forte, che sfortunatamente si trova ancora su troppe bocche, nonostante sia un insulto rivoltante ed estremamente denigratorio : “Le donne sono tutte puttane”. Se io non voglio prendere un impegno nei confronti dell’inferenza (il collegamento consequenziale) alla base di questo inciso, cioè quella tra “donne” e “moralmente indegne rispetto agli uomini”, non posso utilizzare questa espressione.
Questa conclusione può sembrare ovvia, eppure quante volte sentiamo persone, che magari si sono definite femministe, utilizzare la parola “puttana” per insultare una donna?
Quando, in realtà, assolutamente nessuno avrebbe titolo a tale impegno. La teoria inferenzialista è interessante proprio per questo: evidenzia quanto sia fondamentale riconoscere ciò che è compreso nelle espressioni di cui facciamo uso e quindi ci spinge a dargli più peso. Ci insegna a porre più attenzione a ogni singolo termine (sia esso pensato, scritto o pronunciato), dimostrando che non è mai isolato, ma porta con sé delle premesse e delle conseguenze che noi, da esseri raziocinanti, non possiamo ignorare. Ma, soprattutto, tale teoria ci mette davanti a una responsabilità che abbiamo tutti noi.
«Nella lotta della Ragione contro il pensiero degradato dal pregiudizio e dalla propaganda, la regola fondamentale è che gli impegni verso inferenze materiali potenzialmente controverse dovrebbero essere resi espliciti sotto forma di asserzioni, rendendoli così vulnerabili alla sfida del ragionamento e, contemporaneamente, evidenziando il loro bisogno di una difesa ragionata: non si deve permettere che rimangano annidati in frasi fatte come ‘nemico del popolo’». (2)
La nostra responsabilità corrisponde dunque al dimostrare anche agli altri ciò che le loro espressioni davvero significano e implicano. Abbiamo sempre il diritto di non permettere l’abuso delle parole e di chiedere a chi utilizza quelle che Brandom definisce “controverse” perché l’abbia fatto, per poi giudicare se avesse titolo a quest’azione. Revisioniamo quindi il nostro vocabolario, e quello altrui, per capire quali sono i termini degni di farne parte e per evitare che quelli inopportuni vengano utilizzati senza cognizione di causa in espressioni altrettanto inaccettabili.
Impegniamoci allora a riconoscere cosa c’è davvero alla base delle espressioni che utilizziamo, e quindi gli impegni che ci assumiamo. Solo così possiamo averne davvero consapevolezza e mettere gli altri di fronte alla realtà delle loro asserzioni.
(1) M. Heidegger, Brief über den »Humanismus«, trad. it Lettera sull’«umanismo», Adelphi, 1995
(2) R. Brandom, Articulating reasons: an introduction to inferentialism, trad. it Articolare le ragioni: un’introduzione all’inferenzialismo, Il Saggiatore, 2002
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