Perdonare l’imperdonabile

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Gli avvenimenti con cui Hannah Arendt ha dovuto confrontarsi richiedono una comprensione che non può più usufruire degli strumenti tradizionali: due guerre mondiali nell’arco di una generazione, l’ascesa al potere di Hitler, due totalitarismi e l’esilio diventano la chiave di lettura del suo stesso pensiero. La sua riflessione si colloca, quindi, sotto il duplice segno dei traumi storici vissuti in prima persona e dell’influenza della filosofia dell’esistenza di Heidegger.


Sono proprio queste concrete esperienze storiche che hanno fatto sì che divenisse centrale nel suo pensiero il concetto di “praxis”, intesa nel suo significato di agire politico.


Lo scopo è quello di ripristinare l’autenticità e l’originalità dell’azione, intesa come attività con la quale gli uomini entrano in rapporto diretto tra loro senza la mediazione di cose materiali o artificiali, e come essa corrisponda alla condizione strutturale della pluralità. Nell’agire l’uomo si rivela e, nonostante possa essere in parte condizionato e motivato da interessi individuali, riesce a superarli e a trascenderli.

Il rimedio contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità del processo avviato dall’azione non scaturisce da un’altra facoltà superiore, ma è una delle potenzialità dell’azione stessa. In particolare, la redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità, cioè dal non riuscire a disfare ciò che si è fatto, è nella facoltà di perdonare; il rimedio all’imprevedibilità è, invece, nella facoltà di fare e di mantenere delle promesse. Le due attività sono complementari, poiché il perdonare serve a distruggere i gesti del passato; il vincolarsi con delle promesse serve a gettare isole di sicurezza nell’oceano dell’incertezza.


Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci. Senza essere legati all’adempimento delle promesse, non riusciremmo mai a mantenere la nostra identità.


Entrambe le facoltà, quindi, dipendono dalla pluralità, dalla presenza e dall’agire degli altri, dato che nessuno può perdonare se stesso e sentirsi legato a una promessa fatta solo a se stesso; perdonare o promettere nell’isolamento è un atto privo di realtà, di significato, non è nient’altro che una parte recitata davanti a se stessi

Giudicare ingiusto un atto non è il primo passo per perdonarlo; in effetti, per Arendt non si perdona assolutamente l’atto, ma colui che l’ha compiuto, una persona. Il perdono non si rapporta direttamente a ciò che è stato fatto e non appartiene al dominio morale su cui si concentra la maggior parte delle discussioni sul perdono.

Il peccare, afferma Arendt, è un evento quotidiano ed è necessario che sia perdonato, messo da parte «per consentire alla vita di proseguire prosciogliendo gli uomini da ciò che hanno fatto inconsapevolmente. Solo attraverso questa costante mutua liberazione da ciò che fanno, gli uomini possono rimanere agenti liberi» (1). La parola “prosciogliere” è molto più adatta per gli scopi di Arendt rispetto a “disfare”, perché «non comporta la dimenticanza o l’annullamento dell’atto, ma implica unicamente l’essere liberati dal passato per andare avanti; è un lasciare andare» (2).

Diversamente dalla vendetta, che è la naturale e automatica reazione alla trasgressione e che può essere prevista e anche calcolata, l’atto del perdonare non può essere mai previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originario dell’azione.


Perdonare, in altre parole, è la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata.


L’alternativa al perdono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune con il primo il tentativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe proseguire indefinitamente. È, quindi, significativo il fatto che gli uomini siano incapaci di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato imperdonabile.

Il perdono e la relazione che esso stabilisce sono sempre questioni esclusivamente personali in cui ciò che fu fatto è perdonato a chi lo ha fatto. La ragione risiede nella convinzione corrente che solo l’amore ha il potere di perdonare: l’amore possiede un insuperato potere di auto rivelazione e permette una visione eccezionalmente chiara per comprendere il chi, proprio perché è indifferente a ciò che la persona amata può essere, alle sue qualità e ai suoi limiti. L’amore distrugge lo spazio intermedio, l’infra, che ci mette in relazione con gli altri e che dagli altri ci separa.


Personalmente, ho sempre pensato che perdonare sia una delle cose più difficili da fare nella vita. Molte persone pensano con questo atto di umiliarsi o di sminuirsi, ma in realtà il perdono necessita estrema forza e coraggio.


Se andiamo ad analizzare l’etimologia della parola perdono, notiamo che è composta dal prefisso latino “per” (che indica un eccesso, un surplus) davanti alla parola “dono”. Quindi il perdono è una eccedenza del dono. Quando perdoniamo noi regaliamo qualcosa di estremamente prezioso all’altra persona: la possibilità di ricominciare, la possibilità di una nuova vita, di un nuovo inizio.





(1) Hannah Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958, p. 240; Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2005, p. 177.

(2) Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt: perché ci riguarda, Einaudi, Torino 2009, p. 97.