Donna Haraway, professoressa emerita all’Università di Santa Cruz, California, siede al tavolo della sua casa immersa nella natura. Davanti a lei, un pupazzo a forma di polpo, una cesta navajo e dei libri di fantascienza. Racconta del rapporto con Cayenne, il suo cane, compagna di vita, tra gare di agility e mutuo sostegno:
«È un po’ anziana e, a volte, nel tardo pomeriggio comincia ad abbaiare confusa. Non sa bene cosa fare e quello che percepisco io è la confusione di un’amica. […] Il mio dovere è accompagnarla, come specie compagne (companion species).» (1)
Questa, la scena di apertura del documentario Donna Haraway, Storytelling for Earthly Survival (2016) (2), di Fabrizio Terranova, che restituisce il lato umano di una pensatrice tanto complessa a livello concettuale, quanto legata alla concretezza del vivere. Tra un racconto, una risata genuina e l’apparizione di meduse e tentacoli in background, si sciolgono i nodi della sua ricerca filosofica.
Uno di questi è il concetto di companion species, sopracitato.
Lo definisce nel suo omonimo manifesto (3): due specie sono compagne quando, tra loro, emerge una relazione produttiva e co-costitutiva. I cani sono l’esempio più significativo di questa relazione, che comprende tutti quegli esseri non umani che, a un certo punto, varchino una sorta di confine bio-sociale: vengono apprezzati per ragioni che esulano dalla mera utilità.
Quello di companion species non è certo il concetto più celebre della filosofia di Haraway, ma aiuta a spiegarne uno dei pilastri portanti: il rifiuto dell’antropocentrismo. Al dominio umano, oppone una visione multispecie; allo «strapiombo esistenzialista» (4) di stampo heideggeriano, delineato da scelte solitarie e prive di legami, oppone una responso-abilità compattata e collettiva, dove per responso-abilità si intende l’abilità di generare risposte ai problemi del presente, vessato dalle conseguenze dell’Antropocene o Capitalocene (= epoca geologica in cui le attività umane hanno inciso sui processi geologici).
Quella della vita è «una storia dell’esistere e del progredire (ongoingness), coltivata nei cunicoli della Terra» (5), che prescinde dall’essere umano e non dà per scontata la sua sopravvivenza. L’uomo, come le altre specie, deve far fronte al pericolo dell’estinzione.
La questione che si pone è la seguente: può continuare a farlo con una fede illimitata nella tecnologia riparatrice «che trarrà in salvo i suoi figli poco obbedienti ma molto intelligenti»? (6) Deve cedere al cinismo e alla convinzione che les jeux sont faits? Oppure c’è un’altra strada da percorrere?
ll lavoro di Haraway getta le basi per un ripensamento dell’etica, proponendo una nuova narrazione, un nuovo storytelling: il pensiero tentacolare o era dello Chthulucene, fatto di connessioni fitte e sotterranee, come i miceli dei funghi, che si sviluppano per chilometri e chilometri al di sotto delle foreste, creando alleanze tra il mondo organico e inorganico — un invito a considerare il pianeta Terra come un sistema olistico, dove l’uomo non è l’unico protagonista.
Ecco che torna il concetto, radicalmente antispecista, di companion species: tra le specie si formano alleanze, addirittura parentele (making kin) e queste relazioni suppongono cura e premura (making kind), in un co-abitare la Terra in modo responsabile.
«Diventare parenti è una promessa molto più grande [dell’amicizia], contiene la reciprocità e il tempo dentro di sé, implica la promessa di prendersi cura delle generazioni che verranno, non solo dell’adesso. […] Generare parentele significa assumersi la responsabilità di tutto quello che la complessità del vivere e morire condiviso comporta […]» (7)
Non solo parentele umane, ma molto di più: con queste teorizzazioni Haraway dimostra di avere superato, o meglio inglobato, la prima fase del suo pensiero: il cyberfemminismo.
«Non che il cyborg non funzioni più, ma credo che vada messo in relazione a una cucciolata di altre creature, mentre troppo spesso lo si è considerato isolatamente.» (8)
Pubblicato nel 1985, Manifesto Cyborg è uno dei testi più noti di Haraway. Ispirato alla fantascienza e al cyberpunk, ammirati dall’autrice per le capacità immaginifiche, ha come obiettivo critico il femminismo essenzialista, al grido di «Preferisco essere cyborg che dea» (9).
Secondo Haraway, la cultura occidentale è stata caratterizzata da una struttura binaria di categorie: uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente. Questi dualismi non sono però simmetrici: storicamente hanno pesato sulle donne, sulla natura, sul non conforme e vanno superati perché funzionali al dominatore e al mantenimento del suo ruolo. Con la tecnologia, tuttavia, il corpo si è reso un territorio di sperimentazione che, proprio in virtù della possibilità di essere trasformato, fa cadere il mito della sua presunta naturalità: integrando la tecnologia nella concezione dell’organismo, il dualismo naturale/artificiale salta, e con esso tutti gli altri. Ecco che può emergere un nuovo soggetto politico: il cyborg, ibrido di uomo e macchina, creatura che oltrepassa le categorie di genere, individuo sospeso tra finzione e realtà.
Il cyberfemminismo costruisce le fondamenta di un pensiero radicale, che vede nella tecnologia non solo un dispositivo di controllo, ma anche una possibilità di emancipazione per i soggetti marginalizzati.
Con il pensiero tentacolare, questa intuizione si fa ancora più forte e sconfina i limiti dell’umano:
«Potremmo chiamare mondeggiare cyborg la formazione di quegli apparati che si compongono di macchine di vario tipo, dalle più tradizionali alle più nuove, e che coinvolgono piante, microbi, animali, esseri umani, residenti e semplici visitatori, aiutandoci a capire meglio un mondo che tutti vorremmo più rigoglioso.» (10)
(1) «She’s a little bit senile and she starts barking in confusion in the late afternoon. She doesn’t exactly quite know what to do with herself and what i hear is my old friend a little bit confused […] She’s old in a way i’m not yet and my obligation is to accompany my friend. Like companion species […]»
Documentario di F. Terranova, Donna Haraway, Storytelling for Earthly Survival, 2016.
(2) ibidem
(3) D. Haraway, The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago, 2003.
(4) D. Haraway, Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019, p. 26.
(5) Documentario di F. Terranova, Donna Haraway, Storytelling for Earthly Survival, 2016.
(6) D. Haraway, Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019, p. 16.
(7) F. Timeto, Oltre le folle umane per prendersi cura delle generazioni che verranno, intervista a Donna Haraway, in Bestiario Haraway, Mimesis, 2020.
(link: https://www.che-fare.com/haraway-generazioni-relazioni-cura/)
(8) Ibidem.
(10) D. Haraway, Manifesto cyborg, donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 2018, pag. 84.
(11) F. Timeto, Oltre le folle umane per prendersi cura delle generazioni che verranno, intervista a Donna Haraway, in Bestiario Haraway, Mimesis, 2020.
Il femminismo radicale di Shulamith Firestone
3 Dicembre 2023Ayn Rand: una ribelle tra cinema, arte e distopia
4 Luglio 2022Il “noi” in Margaret Gilbert
6 Giugno 2022
-
Nativi della Terra
9 Agosto 2019 -
Libertà come presupposto d’Amore
31 Maggio 2021 -
La volontà di cambiare
17 Marzo 2023
Filosofemme è un progetto che nasce dal desiderio di condividere la passione per la filosofia tramite la figura delle filosofe.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Privacy PolicyCookie Policy