La filosofia e la crisi dello Stato

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L’idea per cui il destino della filosofia sia intrinsecamente legato alla vita pubblica è qualcosa che, dalla morte di Socrate, accompagna l’immaginario filosofico di tutto l’Occidente. 

Da un lato, infatti, la città conserva un legame generativo con la filosofia, che proprio  dalle vicende politiche della polis trae materia di riflessione; dall’altro, il pensiero filosofico si fa carico delle complessità del vivere associato, manifestando e raccontando lo stato delle relazioni tra i cittadini nelle mura dello spazio geo-politico della città.

Questo legame, che stringe a doppio filo vita pubblica e riflessione filosofica, trova la sua massima espressione nella celeberrima frase hegeliana per cui «la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo» (1). 


Se da un lato, infatti, la filosofia trae materia e memoria dall’avvicendarsi delle esperienze politiche, dall’altro lato è proprio nel tramonto, nella crisi dello Stato, che trova la sua massima espressione. 


È tuttavia lecito chiedersi se non sia vero anche il contrario, e cioè che quando la filosofia, ormai in crisi, si ritira dal volo per la città ormai prossima all’alba, non resta che risvegliarsi.

Le vicende del contesto attuale, quello in cui siamo immersi in quanto cittadini e cittadine, ci portano, con maggiore spinta dagli eventi biologici e politici dello scorso anno e di quello corrente, a considerare, ancora una volta, quanto il destino della filosofia e quello della città siano strettamente legati.

L’evento epidemiologico della SARS-CoV-2 ha, infatti, messo in mostra crepe e vuoti che si celavano da tempo sotto la superficie dello spazio pubblico e che solo ora sono più visibili che mai.

E, come un’ombra che con il far del tramonto s’allunga, tendendo i suoi confini sempre più a lungo, così la crisi dello Stato ha pian piano messo in ombra, mostrando come in un negativo, le crepe di una filosofia nichilista, incapace di sostenere la spinta dinamica e coesa del reale.

Se è vero che filosofia e cosa pubblica sono strette da un comune destino, è necessario anzitutto considerare il contesto attuale alla luce non solo della crisi economica globale, ma anche e soprattutto di una crisi politica, la cui radice si pianta nell’incapacità della filosofia di saper cogliere la vera natura del vivere comune.

Centrali, in questo senso, sono le riflessioni della filosofa politica Hannah Arendt, che proprio in questa crisi della filosofia ha saputo collocare gli eventi di maggior rilievo, per distruzione e chiusura nelle tenebre, del secolo scorso.


Ed è innanzitutto nell’incapacità della filosofia di cogliere la sfera pubblica nella sua natura comunitaria, che va ascritta questa crisi odierna che vede, nelle vicende dell’obbligo vaccinale e del “Green-Pass”, grandi diatribe ideologiche e sociali.


Colpa della filosofia è, infatti, l’aver travisato quella che per Arendt è la vera legge della Terra: ovvero che la natura umana è innanzitutto una natura plurale. O, per dirlo con le parole della filosofa: «Non l’Uomo ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra» (2).

La riduzione della pluralità umana a un soggetto unico idealizzato, formula che si cela al fondo di tutta la filosofia occidentale (in particolare in quella moderna), ha condotto la società odierna verso un individualismo sempre più radicale.

La crisi politica attuale, che spesso si tende ad ascrivere sotto la formula della crisi dei partiti, trae forma dall’incapacità della filosofia di cogliere la vera natura del potere politico, ora considerata come mera gestione dello spazio pubblico.
Se, alla stregua di Arendt, si adopera una nuova concezione del politico e del potere direttamente legati con la natura plurale del mondo, il fenomeno attuale della sfiducia nei confronti della politica acquista un significato nuovo. 

Se, cioè, si intende la politica come condivisione dello spazio pubblico (3) e il potere come ciò che permette agli individui di manifestarsi gli uni agli altri attraverso il discorso e la parola, la crisi attuale può, e a mio avviso deve, essere letta come una chiusura della sfera comune, come cioè una desertificazione della dimensione pubblica.

Più volte, infatti, Arendt insiste sulla natura potenziale e intersoggettiva del potere: «Il potere è realizzato solo dove parole e azioni si sostengono a vicenda», «Esso è potenzialmente ovunque le persone si raccolgono insieme». O ancora, «Il potere è ciò che mantiene in vita la sfera pubblica», «Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono» (4).


Questa nuova concezione del politico pone al centro due grandi questioni: l’azione individuale e la sua relazione con la sfera pubblica.


Quando Arendt in Vita Activa distingue le diverse attività umane, ponendo in rilievo l’azione come capacità prettamente politica degli individui di apparire nella sfera pubblica, intende marcare ancora una volta la dialettica necessaria che a suo avviso viene a instaurarsi tra le due categorie di singolare e plurale. 

Se la sfera pubblica è il luogo in cui l’azione individuale appare e si manifesta agli altri individui, è proprio sulla dimensione intersoggettiva che bisogna porre l’accento. Detta in altri termini, affinché l’azione singolare sia efficace – Arendt sottolinea – è necessaria una dimensione comunitaria nella quale proprio la manifestazione singolare è situata e che permette alla stessa di avere una valenza, di essere accolta nel suo significato esistenziale.

Non a caso la filosofia di Arendt insiste sulla dimensione dell’apparire e più volte, fino agli ultimi scritti, sottolinea che «Essere e apparire coincidono» (5), proprio a sintetizzare la necessità, per un evento, di essere colto nella sua dimensione fenomenica per esercitare la sua potenza esistentiva. In altre parole, è proprio in virtù dell’essere percepita (vista, udita, esperita) che un’azione nella sfera pubblica acquista una dimensione di “realtà”.


Il politico, dunque, diventa proprio lo spazio in cui le azioni dei singoli acquistano valore e significato perché esposte allo sguardo altrui, che ne danno mondo e a cui rispondono a loro volta. 


Se il politico deve quindi la sua esistenza alla capacità degli individui di agire collettivamente in uno spazio di incontro, è evidente che la crisi politica cui mi riferisco va al di là di una “crisi della rappresentanza” come spesso si legge, ma piuttosto attiene alla perduta capacità delle azioni individuali di manifestarsi agli altri, di apparire in una dimensione pubblica

In poche parole, a entrare in crisi è l’idea stessa del politico come intesa finora, e cioè come relazione del singolo con il contesto plurale.

È come se l’esistenza di ogni individuo sia posta più in opposizione che in assonanza a quella degli altri, e che, contemporaneamente, l’esito delle proprie azioni si percepisca come svuotato e privo di significato. Non solo un semplice antagonismo, che già di per sé contiene una relazione, un’opposizione che mantiene l’altro, quanto piuttosto è proprio il senso di inefficacia delle proprie e altrui azioni svuota lo spazio pubblico, gettandolo in balia a forze esterne che governano gli eventi

Non a caso, in coloro che manifestano più marcata sfiducia nella politica, ricorre l’idea quasi hobbesiana di uno Stato esterno all’individuo, che legifera sulle sorti dei cittadini la cui esistenza è configurata alla passiva obbedienza, a qualcosa di percepito come imposto, come estraneo e perciò quasi sempre come subìto.


In quest’ottica, l’unica azione possibile sembra ricadere sulla facoltà di escludersi, del tirarsi fuori dal controllo dello Stato-padrone.


Quanto questa immagine sia lesiva è di per sé evidente. La rinuncia alla partecipazione alla sfera pubblica, la rivendicazione di una agency (6) mediante pura opposizione al potere, non è il tentativo disperato di chi solo mediante pubblico sacrificio sfida l’autorità del tiranno, quanto piuttosto la manifestazione della percepita aridità dello spazio pubblico che fa cadere nel baratro il significato politico della dimensione comunitaria

Venuta meno la percezione della responsabilità individuale dinanzi agli altri, ogni azione è ora pensata sullo sfondo di una logica conservativa, in cui l’azione del singolo è volta alla distruzione dei fondamenti dello Stato. 

Lo colpa della filosofia, in questa logica nichilista dell’io contro lo Stato che è la lotta dell’io contro se stesso, è la grande colpa di un sapere che ha fatto del dubbio radicale e del soggetto trascendentale il canone del pensiero odierno, un pensiero che distrugge la sua stessa sostanza dietro il falso mito della verità. 

E così oggi l’emergere non è mai un emergere agli altri, ma solo un nuotarvi contro, illudendosi che a piene bracciate contro la corrente, si giunga in qualche isola deserta oltre il mare. Se, a suon di metafore così come ho voluto iniziare, si guardasse al mare come ciò che ci sorregge e ci fa camminare, non si lotterebbe così strenuamente per prosciugarlo, con la vana speranza di giungere in quella terra promessa di cui la filosofia ha sempre voluto decantare.


Se, per concludere, la nottola di Minerva s’alza in volo con il far del crepuscolo, è forse lecito pensare che sia la dipartita della nottola a far sorgere il sole?







(1) F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, p. 17.

(2) H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna, 2009, p. 99.

(3) H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 1988, p. 145, in cui si legge: «La sfera politica sorge direttamente dall’agire-insieme, dal “condividere parole e azioni”».

(4) Ivi, pp. 146-147.

(5) H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna, 2009, p. 99.

(6) Capacità di agire, di intervenire nella realtà modificandola attraverso la propria azione.