Una questione di sguardo: oggettivazione, auto-oggettivazione e male gaze

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Oggettivazione

La teoria dell’oggettivazione


Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts nel 1997 hanno definito la «teoria dell’oggettivazione» (1), come quella modalità di percepire i corpi femminili in quanto oggetti, valutandoli e osservandoli in misura maggiore rispetto a quelli maschili. Alla luce delle dimostrazioni di innumerevoli ricerche è infatti possibile affermare che rispetto agli uomini le donne investono molte più risorse mentali nel monitoraggio corporeo e nelle pratiche di bellezza (2). La differenza di genere riguardo all’insoddisfazione verso il proprio corpo esiste da decenni e non fa che peggiorare.

Ciò che sta avvenendo oggi sembra confermare quella che era la tesi di Naomi Wolf negli anni Novanta: più le donne acquisiscono possibilità di studio e affermazione personale, più crescono il giudizio sui loro corpi e la pressione sociale sul loro aspetto (3). Pensiamo a quanto accaduto nel 2010 al teatro La Fenice di Venezia, durante la cerimonia di premiazione del Campiello trasmessa da Rai 1: il conduttore Bruno Vespa invitò la scrittrice Silvia Avallone a salire sul palco per ritirare il premio assegnatole per il suo romanzo Acciaio, vincitore come migliore opera prima. Mentre Avallone faceva i pochi gradini verso il proscenio, Bruno Vespa esclamò: «Prego, inquadrate lo spettacolare décolleté della signorina». Al di là dell’oscenità della vicenda, il significato che – a un’analisi accurata – emerge in questa esclamazione è: «Dispongo dell’immagine del tuo corpo e neanche ti chiedo il permesso» (4).


Si tratta di un evento esemplare di come lo sguardo maschile (ma non solo) sia formato culturalmente a sessualizzare e oggettificare ogni centimetro del corpo di una donna.


Quest’ultima, dunque, oltre a essere svantaggiata nell’intraprendere e nell’affermare se stessa in una carriera lavorativa che eluda dalla dimensione di cura della casa e deǝ figlǝ, è inoltre costantemente sottoposta a un monitoraggio del suo corpo, considerato come oggetto di giudizio, frammentazione e analisi.

«Questo accade perché il corpo delle donne è da sempre sotto assedio da parte dello sguardo maschile e perché fin da piccole veniamo bombardate da messaggi che ci ricordano quanto siano sconvenienti i nostri corpi in ogni loro manifestazione: dal ciclo ai peli, dalla cellulite alle rughe; tutte cose naturali che però dobbiamo nascondere. La grassezza, soprattutto per una donna, è un peccato mortale, perché si allontana troppo dall’idea di una femminilità docile e ubbidiente» (5). 


Male gaze e media


Questa modalità di sguardo e di giudizio è, chiaramente, frutto e proiezione di un più grande sguardo e giudizio, ossia quello che giornalmente ci viene propinato – ancora una volta – dal cosiddetto soft power. Occorre dunque prendere consapevolezza del fatto che non solo l’oggettificazione dei corpi femminili è un atto svilente, infantilizzante e sessualizzante nei confronti delle donne, le quali – in questo modo – sono sempre più esposte alla violenza; ma anche la dipendenza di tale atteggiamento da uno sguardo maschile di matrice patriarcale sostanzialmente dominante.

A tal proposito, è stata Laura Mulvey negli anni Settanta a coniare il termine male gaze, che a partire da una ricognizione incentrata soprattutto sui classici di Hollywood, mette in luce la forte presenza di uno sguardo maschile egemonico legato alla prospettiva autoriale. Quest’ultimo aderisce sistematicamente al punto di vista di protagonisti maschili e desidera costantemente i personaggi di genere femminile, «impostando un rapporto che assume le forme di cacciatore e preda, soggetto e oggetto, inquadrati in una visione del desiderio sempre rigidamente eteronormativa» (6).

Questo tipo di rappresentazioni caratterizzanti non solo la cinematografia ma anche le serie tv, la pubblicità e, più in generale, i media, sono fra le cause principali della maniera oggettivante in cui le nostre strutture di pensiero codificano e giudicano la realtà. Tutto ciò ha come conseguenza l’introiezione della convinzione che l’obiettivo delle donne sia quello di essere desiderate dagli uomini e che siano loro stesse, in fondo, a chiedere di essere validate come sessualmente attraenti.

«Volere è potere, dice il proverbio, ma alle donne si lascia credere che il loro potere sia invece quello di essere volute. È un inganno: desiderare ti rende soggetto attivo e ti educa a scegliere, invece che a essere scelta. Chi desidera comanda. Dire sempre “desiderami” e mai “io desidero” è un cammino di de-formazione, perché chi può solo essere desiderabile sacrificherà la propria forma per prendere quella che pensa sarà più desiderata, condannandosi a esistere solo come conseguenza dello sguardo altrui» (7). 


Dall’auto-oggettivazione al corpo strumento


Occorre evidenziare, pertanto, che «quello maschile è lo sguardo “normale”, cioè lo sguardo egemone, il filtro con cui decodificare la realtà che ogni persona, nella società del consumo, ha imparato ad applicare. Le sue fondamenta riguardano una relazione di potere, prima di ogni altra cosa, e quindi non solo il modo in cui gli uomini guardano le donne, ma anche quello in cui le donne guardano se stesse e le altre donne» (8).

La donna viene percepita come un oggetto da guardare prima ancora di essere considerata una persona e una cittadina. Vivere immersi in una cultura che oggettivizza i corpi delle donne porta loro stesse a percepirsi nello stesso modo, ossia interiorizzano la prospettiva di un osservatore esterno passando così dall’oggettivazione all’auto-oggettivazione. Quest’ultima è «l’atto di vedere il sé, e in particolare il corpo, da una prospettiva in terza persona. […] Lo sguardo oggettivante porta alla frammentazione della coscienza e incide sulle prestazioni cognitive» (9).


In altre parole, l’auto-oggettivazione intossica i nostri pensieri e risorse quotidiane che potrebbero essere destinate alla crescita e fioritura personale, minando il nostro benessere psico-fisico.


Tale visione allocentrica del corpo è parte integrante di un’oppressione sistemica che è quella patriarcale, in quanto uno dei tanti livelli in cui essa si manifesta e agisce: un’ulteriore maniera per svantaggiare e impedire l’empowerment delle donne. Occorre, dunque, riflettere sul fatto che siamo noi stessǝ parte del processo di oppressione e di incatenamento patriarcale, in quanto agiamo, il più delle volte, in favore di quello. L’introiezione dello sguardo egemone è tale che risulta per noi ovvio, “naturale”. Siamo abituatǝ a frammentare i corpi, ma la realtà è che essi trattengono un potenziale per la maggior parte rimasto silente.

Per dirla con Aristotele, la percezione che possiamo avere del nostro corpo possiede in sé capacità rimaste in potenza, che l’oggettivazione e ciò che ne consegue impediscono il loro svolgimento da potenza ad atto. Il corpo è molto di più di un oggetto da mostrare: le persone sono un qualcosa di complesso e devono essere considerate nella loro totalità e complessità.

Sostituendo l’approccio oggettivante con uno neutrale, è possibile imparare a considerare il corpo da un’altra prospettiva che potremmo definire naturalistica-organica: il corpo non più considerato come un oggetto, bensì come uno strumento. Cominciando ad allenare questa diversa tipologia di sguardo – che è, in realtà, un sentire più che un vedere – si scoprirà un nuovo legame con se stessǝ fondato sulle sensazioni, sul piacere e sul dolore, sull’espressività, sulle capacità che il nuovo sguardo ci permette di scovare sul nostro corpo, ora strumento e non più oggetto di giudizi e frammentazioni. 






(1) B.L. Fredickson e T.A. Roberts, Objectification Theory: Toward Understanding, in Psychological Science, 9, (3), 1998, pp. 190-95.

(2) M. Gancitano, Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza, Einaudi, Torino, 2022, p. 110.

(3) N. Wolf, Il mito della bellezza, Mondadori, Milano, 1991. 

(4) M. Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, Torino, 2021, p. 100.

(5) Belle di faccia, Body positivity, in Bossy, Anche questo è femminismo, a cura di B. Furci e A. Vescio, Tlon, Roma, 2021, pp. 16-7. 

(6) E. Fattori e A. Palmieri, Rappresentazione negli audiovisivi (cinema e tv), in Bossy, Anche questo è femminismo, a cura di B. Furci e A. Vescio, Tlon, Roma, 2021, p. 50.

(7) M. Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, cit., p. 103. 

(8) M. Gancitano, Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza, cit., p. 52.

(9) Ivi, p. 113.

Immagine di copertina: opera di Giulia Pedone. https://instagram.com/giuliapedone_figurative?igshid=YmMyMTA2M2Y=