Da che parte stiamo: la classe conta

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Da che parte stiamo: la classe conta è un testo della teorica femminista afroamericana bell hooks.

Il saggio intreccia l’esperienza autobiografica dell’uscita dalla classe lavoratrice e le conseguenti riflessioni sulla questione della classe sociale, in una lettura che risulta sempre interessante e ricca di spunti.

Tuttə noi abbiamo a che fare quotidianamente con i soldi eppure parlare di soldi è un tabù nella buona società.

Non ci si definisce “ricchə” ma si mostra che lo si è tramite il proprio stile di vita, l’abbigliamento, il quartiere in cui si vive, la macchina che si guida. In un mondo in cui le persone ricche diventano sempre più ricche e quelle povere sempre più povere, un mondo compartimentato e diviso, non emerge tuttavia mai esplicitamente e con forza la questione della classe sociale.

L’autrice sente dunque il bisogno di parlarne in modo chiaro e netto, poiché, a differenza di quanto accaduto per le questioni di razza e di genere, «non esiste una lotta di classe organizzata, nessuna sfrontata critica all’avidità capitalista nel quotidiano, capace di stimolare pensiero e azione, critica, riforma e rivoluzione»  (1).

Spunto per la riflessione dell’autrice è la propria esperienza di vita personale e le contraddizioni che l’hanno attraversata.

Le pagine ripercorrono infatti il passaggio dai ranghi della classe lavoratrice e dal mondo di autosufficienza dei nonni materni, «il mondo del premoderno, di neri poveri del Sud proprietari di terreni in un regime di apartheid» (2), a quelli della classe medio-alta grazie all’insegnamento in un college della Ivy League.

hooks salda la riflessione sulla propria vita a un’analisi della cultura e della società.

Il suo status sociale infatti non è l’unico a essere stato stravolto da grandi cambiamenti, anche la società ha subito significative trasformazioni.

bell hooks racconta della propria infanzia segnata da un forte senso comunitario e religioso, un mondo andato perduto in cui l’umiltà era un valore fondamentale e in cui la condivisione delle risorse era un assunto di base del vivere insieme. Arrivata al college con una borsa di studio, l’autrice si rende subito conto che la società al di fuori della propria comunità di provenienza è molto diversa e nasce in lei non solo la coscienza di classe, ma anche la vergogna di classe.

Viviamo in una società individualistica e consumistica che spinge le persone a misurare il proprio valore in base ai beni materiali che possiedono, a impegnarsi il più possibile per arricchirsi e a far ricadere su sé stessə la colpa per le proprie carenze economiche.

Anche attraverso le immagini pervasive delle pubblicità e della televisione, viviamo in un mondo che umilia i poveri e che lega il sentimento di realizzazione personale al consumismo: 

«La società in cui viviamo è dominata dal razzismo, la limitata conquista di diritti civili per le persone razzializzate e per tutte le donne è sotto attacco quotidiano, la segregazione di razza e di classe è la norma, ma l’unico posto in cui si evoca la promessa di comunità è il mondo degli acquisti. Non importa quale sia la tua classe o la tua razza: se hai accesso al credito, al contante, ogni negozio è aperto per te. Nel mondo degli acquisti è il desiderio per la merce a contare, ed esso attraversa tutte le barriere» (3).

La cultura del consumo in cui siamo immersi ci tiene impegnatə a «acquistare o a programmare di farlo » (4).

In un mondo che si finge senza classi e che ci insegna a pensare che semplicemente possedendo gli oggetti giusti si può arrivare alla vetta. «In pochi si fermano a pensare che in una società senza classi non ci sarebbe vetta alcuna» (5).

Pubblicità, giornali prodotti audiovisivi, reality show rimandano un’immagine negativa o caricaturale delle persone povere tale per cui nessunə vorrebbe essere identificatə con loro e sfruttano la fascinazione che le persone comuni provano per ə ricchə e le loro vite, diffondendo l’idea che la ricchezza e il privilegio portino alla felicità.  

«La televisione ha incentivato il mito della società senza classi, offrendo da una parte le immagini di un sogno americano realizzato, in cui chiunque può diventare ricco, e dall’altra suggerendo che questa assenza di gerarchia sociale si esprimesse come pari diritto ad acquistare qualsiasi cosa ci si potesse permettere.(…) Promuovendo il consumismo edonistico, i mass media hanno incoraggiato gli individui di tutte le classi a credere che il possesso di un particolare oggetto risolvesse la questione della classe, creando così una nuova immagine della ricchezza» (6). 

L’analisi del «patriarcato capitalista suprematista bianco transnazionale» dalla prospettiva della ragazza di classe lavoratrice che prima ha frequentato la scuola dei ricchi, poi vi ha insegnato, racconta il  superamento delle barriere di classe non solo dal punto di vista esterno  e materiale, ma anche personale e psicologico.

Il desiderio di comprare certi tipi di vestiti, di avere una bella macchina e una casa di proprietà emergono in tutta la loro contraddittorietà nella riflessione dell’autrice che parla onestamente della difficoltà di aprirsi a una prospettiva così intima nel libro. 

bell hooks dona la propria storia per dirci da che parte è stata durante la sua vita e per farci capire come vi sia potuta rimanere.

L’autrice auspica l’avvento di un movimento femminista radicale di massa, ci esorta a cambiare e riflettere per creare un sistema economico giusto perché «mettere in discussione il razzismo, il sessismo, oppure entrambi, senza interrogare il loro nesso con questo sistema economico basato sullo sfruttamento e la nostra partecipazione collettiva, seppur marginale, allo sviluppo e al mantenimento del sistema stesso, significa in sostanza tradire l’orizzonte di una giustizia per tutti e tutte» (7).

Grazie Tamu Edizioni!

NOTE

  1. bell hooks, Da che parte stiamo: la classe conta, Tamu Edizioni, Napoli, 2022, p.11.
  2. Ivi. p. 32.
  3. Ivi. pp.117-8.
  4. Ivi. p.18.
  5. Ivi. p.17.
  6. Ivi. pp.103-4.
  7. Ivi. p.224.