La guerra, il singolare e il plurale

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Guerra

Il dibattito di questi giorni è permeato dai racconti e dalle immagini della guerra. Il secolo della catastrofe, che sembrava essersi chiuso alle nostre spalle, ci appare dinanzi, vestito dei soliti stracci: la propaganda, la violenza, la lotta, il male.
Quello della guerra è un contesto che ci suggerisce contorni già segnati: il giusto e il bene cedono il passo alla morte e alla disperazione. In altre parole alla precarietà, che da sempre scandisce le nostre esistenze.


Eppure la contingenza della vita umana non deve distrarre da pensieri ben fermi, dall’etica, dalla politica.


Si pensa spesso che la guerra sia un fatto di potenti, che usando la violenza seminano paura. Ed è questa la definizione che più si avvicina alla mia idea di guerra: la violenza dell’uno che si impone sui molti, l’atto deliberato di una volontà che si impone con la forza sul mondo, separandolo.

Le guerre passate hanno, per noi, questo vantaggio: ci permettono di intravedere tra le loro fronde dei fili che si estendono fino al presente e che danno vita, nel nostro tessuto, a incrinature sempre più problematiche. Il popolo, la nazione, la razza sono per noi individui globalizzati e globalizzanti, ormai concetti astrusi. Eppure a giocare un ruolo centrale nei conflitti è, ancora una volta, il concetto di identità.

Il Novecento è, in un certo senso, il terreno in cui appare con maggiore chiarezza come sia proprio la spinta identitaria, espressa come forza violenta contro un’alterità, a fare da contesto ai conflitti bellici. L’idea di popolo e di nazione, d’altronde, ne sono l’esempio lampante. 


Eppure con l’età globale, la centralità e la messa in crisi del concetto di identità permangono, in forme più nuove.


Da una parte, infatti, una chiusura sempre più atomica dell’individuo in se stesso, dall’altra la ricerca di forme locali di aggregazione prendono forme violente e perverse, tanto da condurre a quelle che Elena Pulcini definisce patologie dell’età globale (1), forme radicali dell’Io e di comunità. 

Che sia imposta, rivendicata o rinnegata, l’identità ricopre un ruolo centrale nella vita politica degli individui, emergendo come spazio nel quale la singolarità di ognuno e la pluralità dei molti si attraversano e si mettono in discussione in più forme. 

E se nel secolo scorso proprio la spinta totalizzante verso un’identità nazionale ha condotto alla messa in campo del pensiero dell’essere-per-la-morte, di un’unità che sostiene e deforma la pluralità, è ancora in questo spazio che si gioca la coesistenza umana.


In altre parole, è in questa dinamica, spesso interrotta e polarizzata, del singolare e del plurale, che si dispiegano le forme della convivenza, e allo stesso tempo della messa in questione della stessa. 


Come conciliare i molti e l’uno? Come evitare che l’uno prevalga sui molti? Come scongiurare la dispersione delle molteplicità? Perché se il rischio di un’identità che si impone sulle pluralità ci appare chiaro, il pericolo di una perdita nella molteplicità, di una scomparsa del fattore unificante, è una prospettiva da scongiurare.


L’esistenza umana si dispiega tutta su un equilibrio tra l’uno e i molti. Dove la misura della sopravvivenza ruota tutta attorno a questa “e” che svolge una doppia funzione: quella di dividere ma al tempo stesso di porre in comunicazione. Ed è in questo equilibrio, in questo cum che l’etica, la politica come saper vivere insieme degli enti umani, prende forma.

«Ciò che esiste, qualsiasi cosa sia, dal momento che esiste, co-esiste. La co-implicazione dell’esistere è la spartizione di un mondo. Un mondo non è nulla d’esterno all’esistenza, non è l’addizione estrinseca di altre esistenze: un mondo è la co-esistenza che le dis-pone insieme.» (2)






(1) E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 10, dove si legge: «Si assiste infatti, da un lato, alla radicalizzazione dell’individualismo (globale) e a una sua torsione verso l’atomismo e l’indifferenza, l’omologazione e l’illimitatezza; dall’altro, alla radicalizzazione del comunitarismo (locale), che sfocia sempre più, indipendentemente dalle diverse matrici che ne sono a fondamento, in aggregazioni arcaiche e fusionali, entropiche ed esclusive.»

(2) J-L. Nancy, Essere singolare plurale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2001, p. 44.