Si è da poco concluso marzo, un mese che all’interno dei contesti femministi assume uno spazio e un tempo fondamentale. Un mese scandito da maree fucsia, di manifestazioni transfemministe, di lotte per la riconquista di luoghi collettivi, di voci che richiedono diritti e libertà di autodeterminazione.
Data centrale è l’otto marzo, in cui si celebra la Giornata internazionale della donna, ricorrenza che sottolinea non solo l’emancipazione femminile e i diritti ottenuti, attraverso le conquiste sociali, economiche e politiche dei movimenti femministi, ma che pone anche attenzione alle discriminazioni e alle violenze di genere che ancora quotidianamente viviamo.
Questa è l’occasione in cui il movimento Non Una di Meno, ogni anno, sancisce lo sciopero dalla produzione e dalla riproduzione, dai consumi e dai generi, contro ogni forma di violenza patriarcale.
Merito di questo movimento transfemminista è proprio quello di affrontare i nodi problematici del potere patriarcale in ottica trasformativa: individuando un linguaggio, una cultura e delle pratiche inclusive in grado di invertire la rotta della tradizione, eliminando i presupposti di disuguaglianza di genere, classe, razza ecc.
Il transfemminismo si è sviluppato tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, e ha il pregio di aver unito le battaglie femministe con quelle dell’attivismo LGBTQIA+, elaborando una nuova riflessione critica sui generi e sui concetti di transessualità, transgenderismo e intersessualità.
Ha ripreso inoltre anche la visione rivoluzionaria del femminismo nero e dei movimenti antirazzisti, decoloniali, anticlassisti e anticapitalisti.
Le manifestazioni transfemministe, che si sono svolte in questo periodo in molte città italiane e del mondo, hanno posto come focus la violenza patriarcale, identificando nelle guerre contemporanee e nelle discriminazioni perpetrate contro donne, migranti e minoranze un comune denominatore: la logica del dominio del patriarcato e capitalista.
Con la Convenzione di Istanbul, trattato internazionale varato dal Consiglio d’Europa nel 2011, si è definito per la prima volta il concetto di “violenza di genere”. Questo termine allarga il fenomeno a tutte le forme di maltrattamento fondate sull’odio e sulla discriminazione di genere, che colpiscono non solo le donne ma anche le persone della comunità LGBTQIA+.
L’Italia, pur avendo ratificato la Convenzione di Istanbul nel 2013, non ha pienamente attuato varie sue politiche fondamentali.
La prevenzione che dovrebbe essere prevista su più livelli – dal macro-livello della società fino al micro della famiglia e del gruppo dei pari – non è stata svolta in modo adeguato.
I fondi destinati alle politiche di prevenzione, tra il 2020 e il 2023, sono stati solo il 12% di quelli investiti nel contrasto alla violenza di genere.
Nel corso dell’ultimo anno, il Governo ha ridotto del 70% questi finanziamenti, passando da oltre 17 milioni di euro a soli 5.(1)
In questa prospettiva la violenza di genere viene affrontata solo come un problema di sicurezza.
Lo dimostrano le misure politiche che sono state attuate in merito. Il Decreto Caivano e l’irrigidimento del Codice Rosso mirano a promuovere una propaganda che si concentra sulla punizione esemplare e sulla certezza della pena, ma non affrontano il problema alla radice, ovvero lo smantellamento della società patriarcale.
Inoltre, i centri antiviolenza e le case rifugio non hanno mai ricevuto un sostegno finanziario e organizzativo adeguato dallo Stato. La rete dei Centri Antiviolenza D.i.Re afferma che il piano nazionale contro la violenza di genere adottato per il triennio 2021-2023 non è stato affiancato da un piano esecutivo, né sono stati sviluppati strumenti per monitorare i progressi e le criticità al fine di indirizzare in modo appropriato risorse e strategie per garantire le pari opportunità.
A livello statistico il numero delle violenze di genere rimane elevato.
L’Osservatorio nazionale NUDM riporta 120 casi totali di femminicidi, lesbicidi e transcidi nel 2023 e 25 casi considerando quelli del 2024. In Italia, quasi 7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito violenza fisica o sessuale, e questo numero aumenta considerando le violenze subite dalla comunità LGBTQIA+, di cui è difficile reperire dati statistici al riguardo. Inoltre il tasso del sommerso delle violenze continua a essere significativamente alto: solo il 15,8% delle vittime ha denunciato a causa dei meccanismi patriarcali di vittimizzazione secondaria. (2)
I movimenti transfemministi concentrano la loro attenzione anche sulle forme di violenza invisibili presenti nella comunicazione, nei ruoli sociali e nelle istituzioni. La logica del dominio permea il pensiero, le azioni e il linguaggio, radicandosi profondamente nella nostra cultura, soprattutto in un contesto politico che promuove politiche familiste, razziste e nazionaliste, alimentando l’odio verso ciò che è diverso.
In questo contesto diventa fondamentale acquisire una consapevolezza critica che fornisca gli strumenti necessari per contrastare le narrazioni tossiche e il linguaggio sessista e discriminatorio.
Infatti ognunə di noi diventa responsabile di un possibile cambiamento, partendo proprio dal basso della cosiddetta “piramide della violenza”. Una rivoluzione culturale è possibile quindi, solo se avviene una transizione dal tradizionale modello patriarcale-capitalista, basato su proprietà, violenza e discriminazione, verso una società in cui tutte le individualità possano autodeterminarsi. Cogliendone la complessità delle soggettività ed elaborando un processo condiviso e intersezionale di liberazione dal patriarcato.
- Cfr. in repubblica.it/cronaca/2023/11/13/news/report_action_aid_governo_meloni_violenza_sulle_donne-420254358/
- Cfr. Osservatorio dati Istat primi nove mesi del 2023.
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