Nel settembre 1795 Immanuel Kant pubblica un breve trattato dal titolo Per la pace perpetua dove suggerisce che gli Stati, proprio come gli individui, dovrebbero liberamente associarsi in una federazione per prevenire possibili conflitti tra i popoli.
Kant sostiene l’idea che la pace universale e permanente presupponga il superamento della sovranità degli Stati, nell’ottica di unificare, a poco a poco, tutti i popoli della terra per realizzare un migliore equilibrio di potere.
Il patto kantiano stabilisce che l’individuo, liberamente accettando la libertà del proprio vicino, salvaguardi così facendo anche la propria.
Per questo motivo il filosofo riconosce che «Lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale» (1) ma è qualcosa di “artificiale”, nel senso che deve essere costruita attraverso lo sforzo degli uomini.
Le condizioni alla base del progetto kantiano, imprescindibili per realizzare la pace e per garantire una civile convivenza tra i popoli, sono tre: che ciascuno Stato abbia una forma repubblicana; che si formi una federazione di Stati; che si garantisca il diritto di ospitalità.
Interessante è la concezione kantiana del principio di ospitalità. Le parole di Kant sono molto chiare: «ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro” poiché «nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra» (2).
Si tratta di un diritto di visita spettante a tutti gli uomini «in virtù del diritto comune del possesso della superficie della terra» (3).
Dunque Kant parla di una residenza cosmopolitica strettamente legata ad un’ospitalità universale.
Numerosi studiosi, tra cui in particolare Habermas, attribuiscono a Kant l’opzione di uno stato mondiale, presentandolo quale pioniere di un concetto di cittadinanza rinnovato e più ampio, così come si registra nel mondo contemporaneo.
Infatti, il concetto di cittadinanza inteso come identificazione con uno Stato nazionale, nel nuovo scenario globalizzato, ha subìto un’inevitabile trasformazione. In passato la cittadinanza era legata ad una società chiusa, in cui era indispensabile costruire un forte senso identitario e condividere le radici culturali. Oggi la cittadinanza non è più legata esclusivamente a una condizione anagrafica o nazionale ma, in una visione globale, a un requisito specifico dell’individuo in quanto appartenente al genere umano.
Accanto a una concezione formale di cittadinanza, come stato giuridico che attribuisce al cittadino diritti e doveri all’interno della propria realtà locale, si afferma, dunque, una visione di cittadinanza planetaria. Si definisce cittadinanza planetaria quel senso di appartenenza che supera la dimensione locale e nazionale, nella prospettiva di un unico sistema-pianeta che presuppone per ogni persona una pluralità di benefici e responsabilità e una varietà di appartenenze (familiare, sociale, religiosa, professionale ed etnica): in questo senso, nel cittadino planetario si innestano successivamente le cittadinanze particolari (europea, nazionale, regionale e municipale).
L’economista indiano Amartya Sen, nella sua opera Identità e violenza, sostiene la pluralità dell’identità umana, la quale nega che le persone del mondo possano essere categorizzate unicamente in relazione a un sistema singolo e onnicomprensivo.
Infatti, questo tipo di sistema, proponendo una visione solitarista, secondo la quale una persona ha una sola identità che annulla tutte le altre, genera incomprensioni e violenze. L’identità, per Sen, non è una realtà fissa e statica, un concetto di appartenenza definito una volta per tutte, ma un processo in costante sviluppo grazie all’incontro con l’Altro. Così scrive Sen in Identità e violenza:
«La principale speranza di armonia nel nostro tormentato mondo risiede nella pluralità delle nostre identità, che si intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni drastiche lungo linee di confine invalicabili a cui non si può opporre resistenza» (4).
Una riflessione analoga viene espressa dal filosofo e sociologo francese Edgar Morin nel suo saggio Terra-Patria.
Morin cerca di allargare il concetto di patria a tutta quanta la Terra.
Il sociologo sostiene un’unione planetaria, cioè l’uomo dovrebbe intendere la propria Terra come patria o meglio ultima patria, sviluppando un sentimento di reciproca appartenenza. Solo la consapevolezza di fare parte di un’unica patria terrestre orienterà le relazioni umane al dialogo, alla solidarietà e all’unione pacifica.
Tale atteggiamento richiede un rinnovamento del pensiero, citando Morin:
«Dobbiamo contribuire all’auto-formazione del cittadino italiano (o francese, tedesco…) e fornire la conoscenza e la coscienza di ciò che significa una nazione. Ma dobbiamo anche estendere la nozione di cittadino a entità che non dispongono ancora di istituzioni politiche compiute, come l’Europa per un Europeo, o che non dispongono per niente di un’istituzione politica comune, come il pianeta Terra. Una tale formazione deve favorire il radicamento all’interno di sé dell’identità nazionale, dell’identità europea, dell’identità planetaria» (5).
Per costruire una cittadinanza planetaria è necessario valorizzare le differenze, favorire il dialogo ed il confronto costruttivo con altri popoli e culture. Occorre garantire la possibilità di una cittadinanza cosmopolita attraverso il recupero della memoria storica e, al contempo, attraverso una forte apertura verso il rinnovamento che assicurino la comprensione delle molteplici alterità.
(1) Kant I., Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano, 2013, pag. 31
(2) Ivi, pag. 43
(3) Ivi, pag. 69
(4) Sen A., Identità e violenza, Editori Laterza, Roma, 2008, pag. 19
(5) Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, pag. 75
BIBLIOGRAFIA:
Morin E., Terra-Patria, Raffaello Cortina editore, Milano, 1994
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