Risolutamente irrisolta.
Vivere è a volte cercare di non farlo.
Livres Hebdo
La figurante di Pauline Klein (1) si presenta con un’immagine che viene dal MAD (Museum of Arts and Design) di New York – un manichino della collezione di Ralph Pucci – ed è un libro che quasi frastorna.
La cosa paradossale è che a stordire è un darsi delle parole che nulla ha di ciò che solitamente possiamo associare a qualcosa che incalza: non scombussola un ritmo frenetico della narrazione, non si mangiano i capitoli per via della trama. Beninteso: si anela a sapere cosa accade, ma non sono gli eventi il punto. La figurante disorienta e ammalia perché la protagonista – per la quale mai altro titolo fu più azzeccato – manifesta con un’ossimorica pacata e a tratti ironica violenza la lateralità in cui ci si può porre rispetto alla propria vita.
Camille è una parigina dei primi anni 2000 che sembra osservare passivamente la propria vita avanzare. In realtà, tutt’altro che apatica, bensì analitica verso ogni sensazione che sente muoversi dentro di sé, manifesta con scrupolosa naturalezza la sua riluttanza nei confronti di un ruolo, tanto sociale quanto identitario.
Se è glorificato l’individuo in grado di costruirsi un’identità solida, che funga da base per consapevoli scelte che incarnino alla perfezione la vita il più possibile desiderabile, Camille si domanda come facciano, gli altri, a collimare con ciò che sentono dentro, lasciando a loro la possibilità di inserirsi nelle aspettative di tutti (e delle proprie?), mentre lei assume il punto di vista della spettatrice di se stessa.
«A posteriori, ciò che più mi pareva aberrante era la necessità di dover svolgere un ruolo. E soprattutto, la consapevolezza che quel ruolo poteva venire proposto solamente a un pubblico immaginario» (2).
L’esistenza “bella” non solo pare essere un percorso ereditato da seguire, ma viene figurata come tale da noi e per noi nel momento in cui la raccontiamo: percepiamo come vita composta dagli avvenimenti “giusti” quella che, quando narrata agli altri, crea una bella storia. Dalla consapevolezza dello scarto che c’è tra la realtà e la sua versione edulcorata, Camille si rende conto, quando è sul punto di rassegnarsi a continuare su quei passi che si presuppone siano quelli corretti da seguire, che non è ancora impossibile per lei rimanere «sulla soglia di tutto» (3):
«Attraversare la vita senza dovervi davvero partecipare era possibile a patto di inventarsene una altrove. Ci sarebbe stato finalmente un luogo consacrato alla mia esistenza e quel luogo sarebbe stato il romanzo» (4).
L’occasione di non rinunciare a porsi a lato della propria vita è offerta dalla scrittura: questo il mezzo che Camille sceglie per evitare l’ingerenza della vita, che sembra essere un sopruso nei confronti della sua necessità di trasparenza, di non fare rumore.
La sua non è inerzia, è una resistenza silenziosa a quei meccanismi di forzato riconoscimento in una funzione che ci faccia sentire (per davvero?) realizzati. Solo galleggiando sopra se stessa e decidendo, finalmente, di «non abdicare» (5) a quello che ci si aspetta trova il suo modo di far combaciare la realtà e il suo regime interiore. Perché doversi per forza trovare, posarsi in qualcosa? Forse è opportuno legittimare un nomadismo esistenziale in cui tutto è accettabile, anche la solitudine e l’abbandono degli ideali, anche «il sentimento di essere nient’altro che la mia propria ricerca» (6).
P. Klein, La figurante, Carbonio editore, Milano, 2021
Grazie a Carbonio Editore!
(1) L’autrice ha ottenuto nel 2011 il Premio Murat del Group de Recherche sur l’Estrême contemporain dell’Università di Bari come romanzo francese contemporaneo adatto ai gusti del pubblico italiano con il suo primo romanzo, Alice Kahn, edito nel 2010.
(2) P. Klein, La figurante, Carbonio editore, Milano, 2021, p. 29.
(3) Ivi, p. 110
(4) Ivi, p. 78
(5) Ivi, p. 135
(6) Ivi, p. 136
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