Poesia, etica e destino umano

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Nel 1930, cinque anni dopo le lezioni di Heidegger a Marburgo, Arendt e Stern-Anders, che proprio tra i banchi di quell’aula si erano conosciuti, scrivono a due mani una serie di riflessioni sul destino dell’umanità.

A fare da cornice a questa radicale interrogazione sull’humanum (1) sono le Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke, una raccolta di liriche redatte tra gli anni 1912 e 1922. 


É proprio nei versi di Rilke, dove il tragico e l’aulico s’intrecciano e si necessitano a vicenda, che prendono forma e si incontrano i temi dell’umano e della catastrofe, cari a Günter Stern-Anders, e le riflessioni esistenziali e politiche di Hannah Arendt.


Piano di appoggio a questo clima di angoscia e di bisogno di realtà sono gli anni tra i due conflitti bellici del Novecento, ai quali questi appunti rispondono dando un nome, una tonalità. 

Già dalle prime righe a emergere e a fare da misura alle riflessioni future è il senso di un vuoto che si fa sempre più presente e che solo con gli eventi della seconda guerra mondiale giunge a compimento, mostrando il suo volto per intero.

«Assenza di eco e coscienza della vanità costituiscono la situazione paradossale, ambigua e disperata dalla quale soltanto si può partire per comprendere le Elegie duinesi. La consapevole rinuncia ad essere ascoltati, la disperazione per non poterlo essere, ed infine la coazione alla parola senza risposta, rappresentano l’autentico fondamento dell’oscurità, sconnessione ed ipertensione dello stile in cui la poesia rinuncia alle sue proprie possibilità e alla propria volontà di forma» (2).

Solo la poesia può accogliere ed incarnare il turbamento, il senso tragico dell’esistere, restituendo la sospensione percepita della domanda senza risposta, dell’angoscia, attraverso una retorica che solo allude ad un’eco per poi dipanarsi nel vuoto.


Ed è nella trascendenza, in questo continuo richiamarsi all’altrove, al non compiuto, al non-ancora, che si dipana l’esistenza umana. Uno spazio che Rilke evoca più volte ma che resta irraggiungibile, «perché il bello non è che il tremendo al suo inizio» (3). 


Cosa resta del destino umano è, allora, solo un vuoto, una parentesi che chiede alle cose di fare attrito. 

Se l’oggi non è che un grande assente, è solo in un futuro non ancora formato che l’umanità aspira ad esistere. Ma il non-ancora, così come il già-dato di un passato nel quale l’umanità del presente si rifugia, rischia di trarre in un vuoto cosmico di angoscia e solitudine. E allora spetta alle “cose”, agli oggetti mondani che fanno da ancora, legarci al presente

«Ah, di chi mai ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no, e i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo interpretato, non diamo affidamento. Ci resta, forse, un albero, là sul pendio, da rivedere ogni giorno» (4).


E le “cose” sono anche il compito dell’umano: salvarle dall’erosione del tempo e nello stesso momento salvare noi stessi, esseri umani, i più fragili tra le cose terrene.

«Ma perché essere qui è molto, e perché sembra che tutte le cose qui abbian bisogno di noi, queste effimere che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri. Ogni cosa una volta, una volta soltanto. Una volta e non più. E anche noi una volta. Mai più. Ma quest’essere stati una volta, anche una volta sola, quest’essere stati terreni pare irrevocabile» (5).







(1) H. Arendt, G. Stern-Anders, Le Elegie Duinesi di R. M. Rilke, a cura di Sante Maletta, Asterios Editore, 2015, p. 9.

(2) Ivi, p. 33.

(3) R. M. Rilke, Elegie Duinesi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1978, p. 3.

(4) Ibidem.

(5) Ivi, p. 54.