Leopardi, in realtà, era ottimista!
Apparirà, forse, come un’affermazione radicale – effettivamente lo è – ma parte da una radice di verità.
Anche voi alle scuole medie e superiori avete imparato a memoria le fasi di pessimismo del poeta di Recanati?
Avete letto qua e là frasi sparse scritte sul libro di antologia a dimostrazione del cambiamento tra un periodo e l’altro senza davvero capire ciò che ci fosse scritto e senza approfondire?
Ci siamo passate/in tutte/ e non è stato sempre piacevole. Leopardi pareva un mattone, noioso e, soprattutto, disfattista.
In una fase della vita come quella dell’adolescenza, proprio non ci voleva.
Sempre lì a ricordarci la morte, le sciagure, la crudeltà della natura, dell’arido vero. In un periodo così particolare – in cui si sogna tantissimo – il poeta ci spiattellava in faccia la durezza della realtà.
Se è vero che Leopardi non era ottimista come lo intendiamo noi nella norma – il famoso bicchiere mezzo pieno – è anche vero che il modo in cui lo abbiamo studiato a scuola può portare a semplificarlo.
Certo, i versi del poeta non manifestano esattamente gioia, ma sono spesso anche pieni di speranza, di sogni, di amore e di umanità. Anche con la prosa, nelle famose Operette Morali, ma in particolare nello Zibaldone, Leopardi ci dimostra di non essere il personaggio depresso che emerge dalle antologie scolastiche (1).
Il letterato marchigiano non era pessimista per vari motivi, ma possiamo individuare due punti fondamentali a sostegno di questa affermazione, uno legato alla sua storia personale e uno alla sua formazione.
La prima motivazione è legata alla condizione fisica di Leopardi.
Nonostante i suoi numerosi e invalidanti disturbi, continuava sempre a “tirare avanti” e a esprimere se stesso, il proprio fine pensiero e la propria interiorità attraverso la potenza delle parole. Il poeta scrisse tantissimo, si espresse di continuo: non ci fu quel vuoto comunicativo che spesso accompagna la depressione.
Aveva sì periodi di studio matto e disperatissimo e di clausura, ma anche momenti in cui viaggiava tanto: andò a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa fino ad approdare a Napoli.
Non era asociale, tutt’altro: conobbe molti intellettuali, provocava e faceva discutere.
Non era apatico: si innamorò, soffrì, si disperò. Continuò comunque a farlo: Geltrude Cassi Lazzari, Teresa Carniani Malvezzi, Fanny Targioni Tozzetti e, per alcuni, anche l’amico Antonio Ranieri (2). Una persona davvero pessimista, senza speranze, farebbe tutto questo?
Leopardi, insomma, non era solo un poeta lamentoso, era malato.
La diagnosi è incerta e per questo risulta agli storici un caso interessante. Soffrì di numerosi disturbi: la famosa gobba si affiancava a problemi polmonari, cardiaci, gastrointestinali, renali e neurologici. A ciò si aggiungevano dolore agli occhi, debolezze, parestesie agli arti, insonnia e stanchezza cronica.
Anche i fratelli erano, secondo le testimonianze, deboli di salute a causa di una certa consanguineità tra i genitori. Il destino, per lui, era scritto.
Qualunque fosse la sua malattia – si va da diagnosi di gravi spondiliti, alla tubercolosi o alle depressioni psicotiche – il quadro clinico di Leopardi era grave (3).
In una situazione simile, molti di noi avrebbero perso la speranza. Se pensiamo, allora, alle sue concezioni della natura matrigna, ma anche all’arido vero rileggendole attraverso uno sguardo “clinico”, paiono comprensibili i suoi momenti di debolezza. La sua filosofia fu, quindi, influenzata da tutto ciò: dalla sua storia personale, dalla sua condizione.
Allora, possiamo dire semplicemente che Leopardi era ottimista perché continuò a vivere nonostante tutto? Forse, anche, ma non solo.
C’è, infatti, una seconda motivazione per cui possiamo affermarlo, legata alla sua formazione e forma mentis, che ci ricorda che il poeta di Recanati, al di là di tutto, non era solo un “romantico”, era anche uno studioso eccezionale di scienze.
Credeva nella ragione – pur criticando i limiti del suo abuso – e nei meccanismi della natura; non era solo un divulgatore, era anche un tecnico. Studiò l’astronomia, era un convinto materialista, leggeva Lucrezio, Copernico e Galileo (4).
La formazione di Leopardi fu indelebilmente legata alla scienza e la sua filosofia lo rispecchia.
Per questo i pessimismi rischiano di semplificare: segnano sempre dei limiti troppo netti. Ragione sì, ragione no. Natura matrigna sì, natura matrigna no. Le cose erano in realtà più complicate. Leopardi non abbandonò mai del tutto – come molti romantici – la razionalità e non si rifugiò mai nell’immaginario.
Criticò la ragione, è vero, ma quella calcolante e reificatrice, che portava alla morte della bellezza, che non considerava l’insieme, ma non si distaccò mai dalle sue origini di “filosofo naturale”.
Questo suo legame con la scienza, quindi, ci mostra che l’artista credeva nel metodo, amava capire il senso delle cose e cercare una certa verità, seppur differente o diversamente trattata rispetto a uno scienziato classico.
Concludendo, Leopardi era ottimista… a modo suo.
Sfidando la propria condizione fisica, ma con lucidità e razionalità, non era solo depresso e pessimista come spesso ci viene raccontato dai libri di scuola, che senza cattive intenzioni hanno lo scopo di far comprendere un pensiero e un percorso letterario tanto complicato. Il poeta di Recanati ci ricorda, anzi, ogni giorno di sognare, perché è la nostra salvezza, nonostante i limiti della nostra finitezza.
(1) Cfr. https://www.internazionale.it/opinione/clizia-carminati/2015/02/02/leopardi-non-era-pessimista-quello-che-sanno-e-non-sanno-i-futuri-insegnanti
(2) Cfr. G. Tellini, Leopardi, Salerno Editrice, Roma, 2001.
(3) A riguardo si consiglia vivamente un libretto tanto breve quanto interessante: Erik P. Sganzerla, Malattia e morte di Giacomo Leopardi: osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con documenti inediti, Booktime, Milano, 2016.
(4) Per approfondire a riguardo, ottimo è il trentacinquesimo numero di “Query” https://www.cicap.org/n/query.php?id=135.
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