Moralità neurobiologica in Patricia Churchland

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Churchland

To understand the mind, we must understand the brain.
There really isn’t a special thing called mind. The mind is just the brain.

Inserire la canadese Patricia Churchland nel novero delle filosofe avrebbe potuto (forse potrebbe ancora oggi?) generare qualche perplessità. Alcuni tra coloro che vivono la disciplina filosofica con un approccio tradizionalista – aka conservatore hanno ritenuto che il suo approccio interdisciplinare, che coniuga filosofia e neuroscienza, svalutasse la filosofia stessa. Vi è chi, spingendo di più il pedale dell’acceleratore della critica, l’ha accusata di scientism, una sovra-valutazione della scienza come unico mezzo per trovare tutte le soluzioni (1).


Perché mai?


Churchland nasce come filosofa e tale si definisce, first and foremost (2), per poi approfondire gli studi sulle neuroscienze dando vita a un avvicinamento interdisciplinare che mira a fare luce sull’impatto delle scoperte scientifiche – biologiche e neurologiche in particolare – nei confronti delle domande sine tempore sulla coscienza, sul sé, sul processo decisionale, sul libero arbitrio, sulla moralità.

Le sue ricerche si focalizzano sull’associazione tra i processi morali e il “cervello sociale”: se la morale tradizionale si è imperniata sulla presenza di una presunta anima o di qualche luogo astratto da cui proviene quella voce guida, Churchland riconduce il processo etico ai circuiti neurologici cerebrali, esplicitando come la “mente” sia essenzialmente questo: il cervello. Comprendere la coscienza significa allora comprendere il funzionamento cerebrale, che ci accomuna dal punto di vista dei macrocircuiti, mentre differisce da individuo a individuo nei microcircuiti.


Influenza importante sull’agire morale umano è data anche dal contesto sociale, sempre legato al nostro funzionamento neurologico: l’uomo tende per costituzione fisiologica a osservare, apprendere e imitare e rinforzare o indebolire determinati comportamenti e decisioni sulla base dell’approvazione o dissenso sociale.


Così funziona, infatti, il “sistema di ricompensa”, o di gratificazione. Non a caso, Churchland conferisce particolare rilevanza all’ossitocina, che implementa l’attaccamento sociale e di conseguenza l’azione di cura, che a sua volta gioca un ruolo fondamentale nelle scelte etiche.

La moralità, dunque, si rivela non come un insieme di norme etiche assolute, bensì come il risultato dell’evoluzione biologica, che è per natura conservatrice: l’insieme di pratiche e attitudini che regolano il comportamento del soggetto in virtù del suo essere un animale sociale, e al fine di facilitare il benessere nel gruppo (e di conseguenza, variano da società a società). Il che equivale a mettere in discussione l’antico predominio della ragion pura a favore di un apprendimento dall’esperienza.


Partendo da questo presupposto, la neurofilosofa rigetta, tacciandola di non realisticità e di romantic bit of no sense (3), la teoria morale utilitaristica, che ricerca il bene maggiore per il maggior numero di persone: ritiene che sia fisiologicamente inagibile il principio per cui si debba privilegiare una scelta etica basata sulla quantità.


Secondo Churchland, non si tenderà a scegliere, ad esempio, l’abbandono dei nostri due figli perché comporta la salvezza di venti orfani dall’altra parte del mondo (4). In altri termini, il critico approccio del male minore cede il passo al non meno problematico concetto della salvaguardia di ciò che fa parte del proprio gruppo sociale.

Churchland rileva lo stesso principio di funzionamento in tutti i mammiferi, che ritiene senza ombra di dubbio possessori di coscienza, di sentimenti di lutto e di empatia. Non a caso, proprio gli studi sui comportamenti animali non-umani hanno concorso in gran parte al suo accostamento alle neuroscienze.

Se lo scarto tra noi e gli altri mammiferi è solo la quantità dei neuroni – e quindi quella dei micro collegamenti nel circuito neuronale, che influisce sulle differenze di scelte etiche – sembra esistere all’interno della specie umana una differenza sulla presenza stessa della coscienza. O meglio, dell’attività cerebrale che tradizionalmente prende il nome di coscienza. Si tratta del caso di soggetti che presentano il deficit psicopatico: tale deficit consiste nell’assenza di sentimenti di colpa, vergogna o rimorso, e nell’inabilità di creare attaccamenti affettivi forti e che perdurino nel tempo. La risonanza magnetica su individui psicopatici non rileva differenze consistenti di attività nella parte frontale del cervello (quindi sul sistema di gratificazione): ciò comporta che sia ulteriore prova del fatto che le differenze nel processo decisionale etico risiedano nel livello micro strutturale delle attività neuronali (5).


Ultimo ma non per importanza, il dubbio costante della filosofia: quali conseguenze ha sul concetto di libero arbitrio l’idea che la coscienza sia determinata dal cervello, che a sua volta è determinato dall’ereditarietà genetica?


Churchland fornisce una risposta quasi spiazzante: se possedere la facoltà di libero arbitrio significa che le decisioni risiedono in un causal vacuum (6), allora sì, accettare che derivino da attività meramente biologiche è causa di disturbo. But of course your decisions aren’t like that (7). La fantasiosa idea del libero arbitrio viene sostituita dall’autocontrollo, che può oltretutto essere incrementato da noi stessi.

Sì, i geni influiscono sul circuito cerebrale e sul come prendiamo decisioni, quindi sulla nostra moralità, ma ciò non significa che siamo dei burattini: significa, parafrasando Churchland, che abbiamo una enorme corteccia cerebrale, che fornisce una sorta di mattoncino tampone tra i geni e le decisioni. Maggiore è la dimensione della corteccia cerebrale, maggiore sarà la flessibilità di cui un essere è dotato nei processi decisionali.


Non sarà allora proprio quel mattoncino a tenerci aggrappati all’idea romantica di coscienza e libero arbitrio?






(1) https://www.vox.com/future-perfect/2019/7/8/20681558/conscience-patricia-churchland-neuroscience-morality-empathy-philosophy

(2) https://undark.org/2019/08/02/neuroscience-morality-conscience-patricia-churchland/

(3) https://www.vox.com/future-perfect/2019/7/8/20681558/conscience-patricia-churchland-neuroscience-morality-empathy-philosophy

(4) Ibidem.

(5) https://undark.org/2019/08/02/neuroscience-morality-conscience-patricia-churchland/

(6) https://www.vox.com/future-perfect/2019/7/8/20681558/conscience-patricia-churchland-neuroscience-morality-empathy-philosophy

(7) Ibidem

FONTI:

P. Churchland, Conscience. The Origins of Moral Intuitions, W.W. Norton & Company, 2019.

P. Churchland, Braintrust. What Neuroscience Tells Us about Morality, Princeton University press, 2011.

https://www.vox.com/future-perfect/2019/7/8/20681558/conscience-patricia-churchland-neuroscience-morality-empathy-philosophy

https://patriciachurchland.com/

https://patriciachurchland.com/books/

https://www.nytimes.com/2019/06/28/books/review/conscience-patricia-churchland.html

https://undark.org/2019/08/02/neuroscience-morality-conscience-patricia-churchland/

Immagine di copertina: https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Patricia_Churchland#/media/File:Brainwash_Festival_2015_-Patricia_Churchland(2).jpg