La violenza è politica?

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Nelle vicende degli ultimi giorni il tema della violenza nel politico ha investito le riflessioni pubbliche.

L’assalto alla sede della CGIL a Roma da parte di esponenti di partiti legati all’estrema destra e a neo-fascismi è senz’altro un episodio da cui partire per analizzare i legami tra esercizio della violenza e potere politico.

Ma, in questo intricato rapporto tra irruzione violenta e spazio pubblico, è bene inserire un altro evento, più volte ascritto anch’esso tra le manifestazioni di violenza pubblica: quello che vede come protagonista, ma non solo, il content creator Marco Montemagno.

In un video pubblicato sui social, poi subito rimosso, dal titolo “Perché farti vedere mezza nuda non è una strategia vincente”, Montemagno ha affermato che:

«È pieno di ragazzette che mostrano le pere su Tik Tok e fanno girare il culetto così. Apro parentesi, amiche mie credete allo zio vecchio. Questo non è un modo di esprimere la vostra libertà, è purtroppo un modo di dimostrare una grande inferiorità perché una non è in grado di fare nient’altro che far girare le chiappette. Anche perché immagina quando poi cazzo crepi e sulla tua lapide c’è scritto “Eh come faceva vedere le pere su Tik Tok era la numero uno”. Non lo so se vuoi essere ricordata così»(1).

Partiamo con ordine.

Tra i due episodi apparentemente intercorre un abisso: sono diversi gli spazi (uno accade nello spazio pubblico della città, l’altro nello spazio pubblico-digitale delle piattaforme social), cambiano i contesti e certamente cambiano gli attori.

Ma ciò che accomuna e allo stesso tempo differenzia i due episodi è l’uso della violenza e il significato che l’atto violento acquista nel contesto politico in cui è situato.

Hannah Arendt affronta questo argomento più volte nei suoi scritti. Innanzitutto, la filosofa tedesca ci pone dinanzi a un’idea di violenza come antitetica al potere. Scrive, infatti, in Vita Activa, che il potere (2), inteso come spazio di condivisione e di riconoscimento, è possibile preservarlo solo

«dove le parole non sono vuoti e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per nascondere ma per rivelare la realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per stabilire relazioni e creare nuove realtà» (3).

La violenza, quindi, per Arendt, è nel novero delle pratiche che distruggono lo spazio pubblico e il vivere comune. Se il potere, creando spazi di dialogo e di condivisione, permette l’emergere dell’unicità di ognuno, la violenza paralizza gli individui, gettandoli nell’isolamento e nell’immobilità della solitudine. «La violenza, curiosamente, distrugge il potere più di quanto distrugga la forza» (4) e anche quando «la violenza distrugge il potere essa non può mai sostituirlo» (5). 

A questo tipo di violenza si imputa il primo degli eventi a cui si è accennato sopra: l’interruzione dello spazio pubblico, la sua distruzione da parte di soggetti che hanno il solo scopo di annientare lo scambio e la manifestazione degli individui nella sfera pubblica. Unico argine a questo agire violento è, per Arendt, la facoltà umana del “cominciamento”, una capacità che è innata negli individui e che proviene dalla possibilità stessa dell’azione.

«Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare (come indica la parola greca archein, “incominciare”, “condurre” e anche “governare”), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). […] Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile» (6).

L’azione è, in definitiva, ciò che permette di risanare lo spazio pubblico e di contrastare la desertificazione operata dalla violenza.

Agendo si costruiscono spazi di condivisione e di manifestazione, luoghi in cui apparire e prendere la parola mostrando chi si è.

Proprio perché ha a che fare con la facoltà di cominciare daccapo, l’azione è manifestazione della libertà umana: agendo gli individui si liberano della catena di reazioni in cui sono inseriti e danno vita al nuovo. Per questa capacità, l’azione è pensata alla stregua di una rivoluzione.
Torniamo qui al nocciolo della questione: se è la violenza ciò che ha portato il corteo a distruggere la sede della CGIL a Roma, è violenza anche ciò che è accaduto a Montemagno e che ha portato centinaia di donne a rispondere alle sue affermazioni inviando foto intime?

La mia risposta è no.

Se nel primo caso i gruppi neo-fascisti hanno operato una paralizzazione dello spazio pubblico attraverso violenza al fine di reprimere e di dissipare la manifestazione di ognuno, l’atto, erroneamente definito “shitstorm”, di inviare le proprie foto intime ha in sé il carattere della rivoluzione.

Il discorso di Montemagno, a cui ha fatto seguito un’ondata di foto di parti del corpo femminile generalmente represse e sessualizzate, era infatti la voce di un patriarcato che fa del corpo della donna un oggetto del desiderio e allo stesso tempo di repulsione, in ogni caso un oggetto.

Il corpo delle donne è sempre un corpo alienato, posseduto da chi lo guarda, da chi lo giudica, mai da chi lo mostra.

A questo atto violento, di repressione e di negazione del corpo femminile, che è anche e soprattutto negazione dello spazio, di cui Montemagno si è fatto momentaneo portavoce, è seguito l’inatteso, l’inaspettato, la rottura della norma. E così, a un atto di repressione, centinaia di donne hanno scelto di rispondere rivendicando il loro corpo, il loro apparire. La risposta, che di re-azione a-critica ha poco, è l’affermazione di uno spazio, è l’irruzione nella sfera pubblica di chi ne è sempre stata esclusa.

Lungi dal dissipare lo spazio pubblico, il corpo delle donne ha sfondato il muro che ne precludeva l’ingresso.

L’atto di rivoluzione, tuttavia, non deve essere confuso con la violenza.

D’altronde è Arendt stessa a metterci in guardia da questo fraintendimento. Ancora una volta è all’azione che bisogna tornare: mentre la violenza, precisa la filosofa, è dissipatrice dello spazio pubblico perché getta nell’inerzia della non azione, nell’immobilismo della paura, «le rivoluzioni sono gli unici eventi politici che pongono direttamente e inevitabilmente di fronte al problema di un nuovo inizio» (7) e perciò conservano la stessa forza affermativa dell’agire politico.

Proprio per il suo carattere di ricerca e di fondazione di uno spazio in cui manifestarsi, in cui apparire liberamente, la rivoluzione ha come proprio fine l’instaurazione della libertà (8).

E questo gesto di rivendicazione, che si irradia dal corpo come bandiera di uno spazio in cui proprio a quel corpo è negato di apparire, è alla stregua di una rivoluzione: un’apertura dello spazio, l’affermazione del diritto di manifestarsi, di mostrarsi attraverso un paio di “pere e di culetti” (sic!) e di ricordare a tutti che anche le donne hanno il diritto di apparire.

  1. https://www.open.online/2021/10/08/montemagno-sessismo-commento-chiudi-le-gambe-fa-freddo/
  2. Il potere è inteso da Arendt come ciò che permette agli individui di manifestarsi gli uni agli altri attraverso il discorso e la parola nello spazio pubblico. Cfr. H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 1988, p. 146.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, p. 149.
  5. Ivi, p.148.
  6. Ivi, p.129.
  7. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, p. 15.
  8. Ivi, p. 156.